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Figli di Portici famosi: Antonietta De Pace

di Stanislao Scognamiglio

Si sente spesso parlare di personaggi di Portici per nascita o d’elezione dei quali si sta perdendo la memoria … Ritengo perciò doveroso ravvivarne memoria fornendo un breve profilo biografico tratto dal mio inedito Diario; avvenimenti, cose, fenomeni, uomini, vicende.  Portici e Vesuvio dalle origini a oggi, con il conforto di Autori di ogni tempo.

Antonietta De Pace è nata a Gallipoli, in provincia di Lecce, il 2 febbraio 1818, da Gregorio De Pace e da Luisa Rocci.

È quarta figlia del ricco banchiere e sindaco di Gallipoli, «… fondatore della  setta carbonara L’Unità del Salento, morto forse perché avvelenato dal suo segretario».

Giovanissima, dal padre, uomo di ampie vedute e privo di pregiudizi, è stata avviata agli studi economici, «… poiché desiderava che un giorno portasse avanti le imprese di famiglia».

All’età di otto anni, dopo la morte del padre e al «conseguente tracollo economico fu messa in convento» delle Clarisse a Gallipoli, diretto da una zia badessa.

Bella e fiera dai lunghi capelli neri, femminista ante litteram, non tollerando le ingiustizie sociali, «… fin da ragazza si schierò dalla parte dei deboli».

Coltivando ideali repubblicani, da «Epaminonda Valentino, repubblicano convinto» è stata orientata verso la lotta risorgimentale e introdotta nelle attività dei circoli mazziniani. Ha quindi aderito «… alla Giovine Italia, riuscendo con la propria determinazione a godere di stima e considerazione, dopo le iniziali resistenze dei più, dovute al suo essere donna».

Poco dopo, è venuta a vivere a Napoli con la sorella Rosa, sposata a Epaminonda Valentino.

Il ritiro della Costituzione, concessa nel gennaio del 1848 dal sovrano Ferdinando II di Borbone, ha provocato il malcontento generale.

Patriota, allo scoppio dei moti rivoluzionari contro l’oppressione della monarchia borbonica, travestita da uomo, ha partecipato in via Toledo «… alle barricate del 1848».

Dopo la morte di Epaminonda Valentino, leader della sommossa salentina, avvenuta in carcere perchè giudicato cospiratore, ha mantenuto i contatti con i gruppi mazziniani del Salento.

Agendo con lo pseudonimo di Emilia Sforza Loredano, ha continuato a cospirare contro il Borbone, intessendo sempre più frequenti relazioni con i mazziniani di tutt’Italia.

Nella città partenopea ha stretto amicizia con molte donne che, come i loro mariti o i loro fratelli o i loro nipoti, aderivano agli ideali mazziniani. Si è assunto il ruolo di essere «… coordinatrice tra i rivoluzionari che erano ancora in libertà, quelli che ancora giacevano nelle carceri e quelli che invece si trovavano in esilio».

A tal fine, fa fondato un’associazione segreta di donne nobili e alto borghesi, mogli o parenti di detenuti politici. Il circolo, in stretto collegamento con quello di Genova, è divenuto «… ben presto un punto di riferimento importante per la circolazione delle informazioni». Allo stesso tempo, è riuscito anche «… a far pervenire ai detenuti politici informazioni sull’andamento degli eventi, oltre a viveri e biancheria».

Hanno fatto parte del sodalizio, donne patriote del calibro di: Antonietta Poerio, Raffaella Faucitano moglie di Luigi Settembrini, Alina Perret consorte dell‘ufficiale Filippo Agresti, l’irlandese Emily Higgins, Costanza Leipnecher, Nicoletta Leanza.

Perseguitata dai Borbone, temendo per l’incolumità della sorella, per sottrarsi alla polizia borbonica ha deciso di entrare come corista nel convento di san Paolo a Napoli.

Purtroppo, però, avendo  trovato dei documenti criptati, la polizia l’ha braccata fin quando, il 26 agosto 1855, l’ha arrestata a Napoli, in casa di Caterina Epaminonda. Al momento dell’arresto, riuscendo «… appena in tempo ad appallottolare e masticare i due proclami di Mazzini nascosti in petto: “Ho preso una medicina” disse beffarda ai gendarmi».

Tradotta al commissariato di Mercato, è stata detenuta per quindici giorni in un cella di un metro per uno, tanto piccola da renderle impossibile il riposo e il soddisfare i propri bisogni. Quotidianamente, il commissario Campagna, con rabbia l’ha interrogata nel tentativo di carpirle utili informazioni nonchè i nomi dei compagni.

Constata l’inutilità di ulteriori tentativi, è stata trasferita nel carcere femminile napoletano di Santa Maria ad Agnone, recuperato dall’antico omonimo monastero. Qui, è rimasta imprigionata per tutta la durata del processo. Durante i 18 mesi di reclusione, per ben 46 volte, è stata tradotta a Castel Capuano, per seguire il dibattimento processuale.

È stata difesa dai «… maggiori penalisti napoletani, Castriota, Pessina, Lauria, Longo. Gli ambasciatori francese, inglese e sabaudo furono con lei. Il popolo si schierò dalla sua parte e tumultuò durante le sedute. La pubblica accusa chiese la pena di morte, ma tre giurati su sei dissero no, così tornò libera».

Conservando il suo iniziale entusiasmo patriottico, ha continuato a lottare per la liberazione del Regno delle Due Sicilie.

Nel maggio del 1859, mentre si svolgono i funerali di Ferdinando II di Borbone, si è affacciata al balcone con indosso uno scialle rosso. Ha motivato il suo gesto, «… spiegando che non poteva portare il lutto per chi le aveva tolto la libertà».

Alla notizia dello «… sbarco garibaldino di Marsala organizzò le adesioni locali all’impresa dei Mille». Senza esitare, ha lasciato «… Napoli con una promessa: vi sarebbe rientrata in compagnia del generale dei Mille»

Il 7 settembre 1860, all’ingresso di Giuseppe Garibaldi a Napoli, così come aveva promesso, è stata al suo fianco.

Il condottiero dei Mille, rivolgendole la parola, «… le disse: “Sono felice di essere venuto a spezzare la catene a un popolo generoso, il cui governo non aveva rispetto neppure delle donne”».

Il generale le concesse un vitalizio di 25 ducati al mese e la affidò la guida dell‘ospedale del Gesù.

Il successivo 26 ottobre, con decreto regio, ha ottenuto una pensione vitalizia di 12 ducati mensili, in seguito «,,, aumentata a 25 grazie all’intervento diretto di Garibaldi».

Dallo stesso dittatore ha avuto affidata la gestione dell’ospedale del Gesù. Accolto con slancio l’incarico, ha dato «… l’ennesima prova di generosità, ma questa il fisico cedette e, preda di una febbre violenta, fu costretta a una convalescenza di un mese»

Legata sentimentalmente da qualche anno al colonnello garibaldino Luigi Fabrizi (Modena, 1812 – Pisa, 1865), l’ha accudito per vari mesi, curandogli le ferite al braccio riportate nel corso di un combattimento davanti Capua, «finché nel febbraio 1861 il Fabrizi lasciò Napoli«.

Da allora, ha cominciato a intrattenere un rapporto sentimentale sempre più stretto con un giovane liberale «… patriota ed esule» Beniamino Marciano, ex-prete, originario di Striano, in provincia di Napoli. Con il Marciano, conosciuto nel 1858, già condivideva non solo pensieri politici, ma anche sentimenti amorosi.

All’indomani dell’Unità d’Italia, 17 marzo 1861, consapevole del fatto che restasse tanto da fare: si è occupata di scuola e di educazione «… affinché tutti, e le donne in particolare, avessero diritto all’istruzione e potessero avere, come era stato per lei, la possibilità di studiare»; si è attivata, con tutte le sue forze, per portare a Roma la capitale del Regno d’Italia: per raggiungere lo scopo, ha creato un comitato per la raccolta dei fondi necessari.

Dopo la Breccia di Porta Pia, 20 settembre 1770, ha potuto finalmente dedicarsi a tempo pieno alla promozione dell’istruzione femminile. Dal sindaco di Napoli Paolo Emilio Imbriani (Napoli, 1808 – ivi, 1877) è stata nominata ispettrice scolastica.

Nel rapporto «… con le giovani generazioni, resa prudente ed esperta dall’età, aveva una preoccupazione fondamentale che era solita ripetere loro, quella di non sciupare ciò che era stato conquistato». Ai giovani, infatti, rendendoli eredi delle battaglie che aveva perseguito per trent’anni, era solito ripetere: «Noi abbiamo fatta l’Italia; voi dovete conservarla, lavorando a farla prospera e grande!».

Nel 1876, «… dopo anni di amore clandestino» ha sposato Beniamino Marciano.

Il 4 aprile del 1882, da Portici, ha esordito, dicendo «… Ho il tormento di non aver portato a compimento l’opera mia perché è un soverchio di forza che mi richiede e il mio fisico, ma ancor più “il mio cuore”, non reggono più dopo tanto lottare e tanto soffrire. Mi consola il poco che ancora riesco a fare: il mio impegno per i miseri che ancora son di grande lunga più numerosi dei possidenti, e in special modo i miei sforzi acchè le donne abbiano un’istruzione. Solo attraverso la cultura possono isperare di riscattare la propria condizione sociale».

All’insorgere dell’epidemia colerica del 1884 si è allontanata per recarsi a Gallipoli. Cessata l’infezione, rientrata a Napoli nel 1885, si è dedicata alla cura del collegio-scuola, fondato dal marito in piazza San Gaetano a Napoli. 

Negli ultimi anni di vita, malferma in salute minata da più affanni fisici e afflitta dalle premature perdite di un nipote caduto in guerra a Bezzecca (21 luglio 1866) e del cognato Giuseppe morto suicida, ha cercato ristoro ai suoi malanni, abitando nella residenza estiva di famiglia a Portici.

All’età di settantacinque anni, ha contratto una bronchite cronica.

Per sopraggiunte complicazioni, l’infermiera militare Antonietta De Pace, è stata sopraffatta dalla malattia. All’alba del 4 aprile 1893, è deceduta a Portici, nella villa di proprietà del marito.

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