Culturaracconti

Il Racconto, L’isola delle scimmie

di Lucio Sandon

Pithecusa, l’isola delle scimmie, fu il primo lembo di terra italica a venire colonizzata dai marinai greci, ottocento anni prima di Cristo. A loro però più che altro interessava l’oro che veniva eruttato dai vulcani sparsi per tutta l’isola, e per difendere da altri popoli quella ricchezza, ci costruirono sopra una rocca formidabile.

Si chiamava Aenaria – dal latino aenum, che significa metallo – la cittadella romana esistita dal IV secolo avanti Cristo e fino al 150 dopo Cristo e distrutta improvvisamente da una eruzione vulcanica. Si trovava nello specchio d’acqua chiuso tra il castello e gli scogli di Sant’Anna. Era un centro industriale dove si lavoravano i metalli e l’argilla: per diciannove secoli la folta prateria di posidonia l’aveva custodita e protetta, e l’antica Aenaria era ormai solo una leggenda. Come l’approdo di Enea, in quella baia accovacciata tra l’isola grande e il Castello Aragonese.

L’immane fortezza di Ischia venne costruita dal tiranno di Siracusa su di un enorme scoglio vulcanico alto oltre cento metri, a poca distanza dalla riva orientale dell’isola. Nel medioevo poi, il castello divenne una città fortificata imprendibile, abitata da milleottocentonovantadue famiglie isolane, con un convento di clarisse e un’abbazia di monaci, oltre naturalmente alla fortezza vera e propria, che al comando del duca Inigo d’Avalos, riuscì a resistere all’assedio e mettere in fuga un’armata inviata dal re francese Carlo VIII.

L’impresa del nobile condottiero aragonese colpì la fantasia di Ludovico Ariosto, che la cantò da par suo:

Vedete Carlo Ottavo che discende.
Dall’Alpe, e seco à il fior di tutta Francia
Che passa il Liri, e tutto il regno prende
Senza stringere spada, e bassar lancia
Fuorché lo scoglio che a Tifeo si stende
Sulle braccia, sul petto e sulla pancia
Che del buon sangue d’Avalos al contrasto
La virtù trova d’Inaco del Vasto.

La leggenda narra che il gigante Tifeo, figlio di Ade e Gaia, istigato dalla madre si ribellò a Zeus. Dopo un’aspra lotta, il gigante fu scaraventato in mare, e condannato a sorreggere per l’eternità sulle proprie spalle il peso di tutta l’isola d’Ischia. Tifeo, personificazione del vulcanesimo, con il suo mito giustificava la natura ignea dell’isola e i suoi frequenti movimenti tellurici.

Infatti, secondo gli antichi le contorsioni del gigante provocavano i terremoti, mentre dalle sue lacrime e dal suo caldo respiro avrebbero avuto origine le acque termali e le fumarole tipiche dell’isola verde. Il mito di Tifeo ad Ischia spiega anche l’origine dei nomi di alcune frazioni dell’isola, quali Panza, Ciglio e Bocca, che si troverebbero in prossimità delle corrispondenti parti del corpo del gigante.

L’isola d’Ischia è ora un luogo di villeggiatura ideale: terme, mare, sole e buona tavola, per tutto l’anno. Strano a dirsi per una località di mare ma, per secoli, l’economia dell’isola è stata prevalentemente agricola, con una minoranza della popolazione dedita invece alla pesca. Una scelta saggia e in fondo obbligata quella degli ischitani che, grazie alla fertilità del suolo vulcanico, ricco di potassio, hanno preferito la terra alle insidie dell’andar per mare.

Due i simboli dell’identità rurale dell’isola d’Ischia: la viticoltura e l’allevamento del coniglio. La scelta di allevare il coniglio poi si spiega – molto semplicemente – con la velocità di riproduzione e accrescimento dell’animale, tanto che nel 1500 era già la specie più allevata nei poderi ischitani. Non solo. La presenza di conigli selvatici sull’isola d’Ischia risale nientemeno all’epoca greco-romana, per non dire della secolare consuetudine delle corti aragonesi e borboniche di ripopolare con l’animale il sottobosco dell’isola a garanzia del proprio divertimento venatorio.

Non deve stupire perciò che la vecchia tecnica di allevamento del coniglio in profondi fossi sia mutuata proprio da una profonda conoscenza delle sue abitudini allo stato brado. Abitudini che gli agricoltori ischitani tendevano a preservare intuendo che la conservazione dell’istinto gregario-coloniale del coniglio avrebbe garantito una migliore qualità delle sue carni, al confronto con altre forme di allevamento maggiormente costrittive.

In realtà, i conigli venivano allevati in profonde buche anche per un’altra ragione, strumentale alla necessità di ricavare terra nuova da destinare alla produzione vitivinicola. Le fosse venivano così riadattate all’allevamento dell’animale rivestendone le pareti interne con i caratteristici muri a secco (parracine) in tufo verde locale, fatta eccezione per due cunicoli sul lato cieco della buca dove gli animali potevano scavare assecondando il proprio istinto, senza tuttavia il rischio che potessero trovare in questo modo una via di fuga.

Nel mese di luglio di ogni anno, il dottor Gardenia era solito trascorrere le vacanze estive all’ombra del Castello Aragonese: gommone e battute di pesca subacquea per lui, relax totale per la sua signora, spiaggia e mare pulito per i bambini.

Il numero di telefono dell’albergo era in possesso solo delle sue fedeli assistenti, che però avevano dovuto giurare sulla testa dei propri avi non solo di non rivelarlo a nessuno, ma di chiamare unicamente nel caso la clinica fosse irreparabilmente andata a fuoco.

Primo giorno di vacanza, ora di pranzo, sala ristorante: il cameriere si avvicinò al tavolo con il piatto tipico dell’isola, i bucatini al sugo di coniglio di fossa ischitano, e mettendo i piatti in tavola sussurrò serafico, dottò… c’è una telefonata per lei alla reception, una certa signora Filograna.

Filofteia, la domestica, aveva il compito di presidiare la casa e di telefonare solo in caso di allagamenti, scoppi, o eruzioni del Vesuvio, quindi se aveva chiamato in albergo, la cosa era seria. Il giovane veterinario si alzò da tavola con un sospiro, guardando con nostalgia la zuppiera fumante di bucatini che moglie e figli stavano già attaccando con lena, e ad una sua piccola esitazione, la moglie gli fece segno con la forchetta: vai, vai, è un’interurbana, meglio rispondere subito… sarà qualcosa di importante!

Bermuda chiari e zoccoli di legno, si avviò mestamente alla cabina telefonica situata nella hall dell’albergo, e ad un cenno dell’addetto alla reception, sollevò la cornetta di bachelite nera:

«Dòttore! »

«Dimmi Filofteia, che succede»

«La signora che piange!»

«Chi è che piange, Filofteia?»

«Nònso, non conosco, è venuta a casa, e piange.»

Qui ci blocchiamo in un circolo vizioso… «Filofteia! Passami la signora che piange.»

«Dottore!!! Sono la mamma di Lilly… Lilly sta male, perde sangue di naso, sta per morire.»

Fregato, e in pieno.

«Scusi signora, ma in ambulatorio ci sono le colleghe, conoscono il caso…»

«No dottore, lei non capisce, Lilly si fa curare solo da lei.»

In effetti, Lilly era una bastardina a pelo corto, orecchie da volpino e carattere da iena, ma aveva per lui una venerazione peraltro immeritata.

«Ma signora, io sono in ferie, e poi mi scusi, come ha fatto a trovare il mio indirizzo?»

«Sull’elenco telefonico, ma la signora straniera qui, mi diceva sempre che lei non c’era, allora sono venuta fin qui, dottore la prego, la supplico, se Lilly deve morire, voglio che sia lei a farlo, come lo fa lei non lo fa nessuno…»

Interdetto, il giovane veterinario non seppe come rispondere all’ultima sibillina frase della piangente signora, incerto se arrabbiarsi o inorgoglirsi, ma dopo aver ascoltato ancora qualche secondo un concerto di rantoli e singhiozzi, prese la decisione.

«Va bene signora, mi ha convinto, prendo il primo traghetto, ci vediamo in ambulatorio all’orario di apertura, oggi pomeriggio.»

Tornò in sala da pranzo, già pentito della promessa fatta, pensando al gommone con l’attrezzatura da pesca che lo aspettava nel porticciolo, e mentre rimuginava sulla sua cattiva sorte gli balenò l’idea geniale.

«Non dire nulla, hai tutto scritto in faccia.»

La moglie lo aspettava per iniziare a mangiare, ma aveva sul volto un’aria poco felice.

«Un caso gravissimo, questione di vita o di morte, devi tornare al lavoro! »

Un sorriso spento sul volto, l’uomo annuì mentre si sedeva a tavola: «Purtroppo, mi hanno coinvolto con l’inganno e il piagnisteo… mi tocca andare, ma… sarò di ritorno per cena.»

«Su questo non avevo alcun dubbio, ho visto che leggevi l’avviso all’ingresso: Stasera Grande grigliata di pesce.»

«Però, però, ho pensato che potrei far prima andando con il gommone!»

Fu così che appena dopo pranzo, scese al porticciolo e partì in costume da bagno con il gommone e con una sacca per i vestiti “civili”: il tragitto di ventidue miglia, corrispondenti a circa trenta chilometri di mare, venne agevolmente coperto nel giro di un’ora, complice il bel tempo ed il mare calmo, poi arrivato al porto di Torre del Greco, lasciò il gommone al marinaio addetto alla custodia dei natanti, e raggiunse in pochi passi, un poco traballanti per via delle onde che avevano scosso l’imbarcazione lungo il percorso, il furgone Renault 4 azzurro, sul cui parafango ammaccato sedeva paziente la bella Marisa, che stava fumandosi beatamente l’immancabile MS. Si ricompose e rivestì in macchina, giungendo allo studio giusto in tempo per l’ora dell’apertura.

Lilly era già lì, irriconoscibile, ridotta ad un ammasso di ossa, pelliccia sanguinolenta e forfora. Un’ondata fetida lo investì, annullando tutti i benefici di un’ora di mare aperto.

La cagnetta era quasi priva di sensi: una rapida visita ed un’altrettanto rapido esame del sangue confermarono la prima impressione. Il povero animale era stato colpito in modo gravissimo da quel mortale parassita iniettato da una puntura di pappataci, una specie di piccola zanzara, molto diffusa in zona.

«Si renderà conto cara signora, che questa diagnosi potevano farla agevolmente le mie collaboratrici, la povera Lilly non si muove quasi più!»

La proprietaria di Lilly, per quanto consapevole della gravità della situazione, sperava nelle capacità taumaturgiche del suo veterinario, ma quando si vide presentare la realtà nuda e cruda, crollò improvvisamente, scoppiando in un pianto dirotto, rendendosi conto di aver sperato che effettivamente lui sarebbe stato in grado di fare un miracolo.

«Va bene, ho capito, fate pure quello che dovete, però io vado via, non voglio assistere alla morte della mia Lilly.»

La signora pagò il conto, lasciò i dati per la fattura e fuggì singhiozzando.

Il titolare alzò gli occhi da Lilly morente e guardò la sua collega ed amica:

«Ti prego, Alessandra, fallo tu. Io non ho il coraggio.»

Andò via a piedi, una lunga camminata fino al porto, sotto il cocente sole del pomeriggio estivo, le mani strette a pugno nelle tasche dei pantaloni, senza guardarsi intorno, lo sguardo fisso sulle scarpe da ginnastica bianche, che prendevano a calci barattoli vuoti e giornali abbandonati per strada.

Il pomeriggio estivo era afoso e una leggera bruma era scesa a ricoprire il golfo, ma la sagoma caratteristica del Monte Epomeo era ben visibile dalla banchina del porto, così pur non essendo attrezzato di bussola o altri mezzi di navigazione, avendo sempre utilizzato il gommone unicamente per la pesca sottocosta, partì a tutta manetta verso Ischia, sfogando la sua rabbia sull’acceleratore e facendosi forte della sua esperienza di gommonauta della domenica.

Con un ciclomotore, seppur scoppiettante e puzzolente, trenta chilometri si ricoprono in meno di un’ora, a meno che non si buchi una gomma. Con un gommone, anche se veloce, ci si può impiegare un tempo altamente variabile e dipendente da vento, dalla forza del mare e dalla visibilità: dopo mezz’ora, quella che sembrava una semplice caligine estiva si era trasformata in una fitta nebbia, di densità tale da non poter distinguere nulla di più distante di un paio di metri, e nemmeno alzandosi in piedi sul bordo del piccolo battello riusciva a distinguere la sommità del vulcano di Ischia, e purtroppo per lui, nemmeno quello ben più alto che sovrastava la sua città, in tal modo gli risultava impossibile proseguire così come tornare indietro, quindi si limitò a procedere alla cieca, con il motore al minimo, nella speranza perlomeno di risparmiare carburante, infatti nella stizza di andarsene da quella che considerava una sconfitta, non aveva pensato di controllare la benzina e rifare il pieno al gommone: ora il galleggiante segnava meno di un quarto di serbatoio e non solo non si vedeva terra o isola, ma cominciava ad imbrunire ed il mare ingrossava alquanto.

In una situazione del genere, al giorno d’oggi non ci perderemmo d’animo perché resterebbe sempre la possibilità di prendere in mano il cellulare, riporre ben nascosto l’ultimo pizzico di orgoglio che ci è rimasto, indossare il giubbetto salvagente e chiamare i soccorsi: sparando in aria i fuochi d’artificio della dotazione di bordo obbligatoria, qualcuno ci potrà di certo individuare e portare sulla giusta rotta, non per niente il tratto di mare tra Napoli e le sue isole è uno dei più trafficati d’Italia.

Allo sfortunato e imprevidente veterinario invece, non restava altro da fare che procedere in quella che presumeva fosse la giusta direzione, sperando di vedere qualche luce che lo potesse guidare, essendo accompagnato solo da un branco di delfini che giocavano, inseguendo e superando la lenta imbarcazione: pensò che forse avrebbe dovuto chiedere perdono per tutti i suoi peccati e che l’anima dannata della povera Lilly sarebbe stata la prima ad accoglierlo per accompagnarlo nel suo lungo viaggio.

Ad un tratto, vide la potente luce di un faro, non molto distante, ed il cuore gli finì direttamente nella suola di gomma delle scarpacce che indossava. In zona l’unico faro così forte era quello fatto costruire nel 1862 da Francesco Secondo di Borbone, per rendere più sicura la navigazione nel golfo di Napoli: alto oltre settanta metri, è il secondo in grandezza dopo quello di Genova.

Il faro di Punta Carena.

Capri.

Dunque, invece di andare verso nord, aveva proseguito verso ovest, e anzichè raggiungere Ischia, aveva quasi superato l’Isola di Capri, direzione Sardegna.

Ciò che salvò lo sventato navigatore fu l’ansimante traghetto bianco che faceva servizio tra le due isole dell’arcipelago campano il quale, arrancando lentamente fra le onde passò giusto a mezzo miglio dalla prua del disorientato nostromo, dandogli così la possibilità di accodarsi e giungere in porto, seppure con un paio d’ore di ritardo ed il serbatoio praticamente vuoto.

Naturalmente la Grande grigliata di pesce era ormai terminata, ed all’affamato marinaio non restò che chiedere al cameriere se per caso non fosse rimasto qualcosa dal pranzo di mezzogiorno.

Qualcosa c’era, e non era niente male.

Il coniglio ischitano è stato portato sull’isola verde dai primi colonizzatori greci, ed è di taglia molto più piccola di quelli allevati in batteria: gli isolani lo allevano in grosse buche cavate nel terreno, dove i piccoli animali vivono e si riproducono praticamente allo stato brado. Si cucina rosolato con olio e peperoncino in tegami di coccio, poi viene condito con pomodorini di collina, ed il sughetto viene “tirato” quasi fino a scomparire.

Una delizia, ma con la fame che si ritrovava, il giovane veterinario avrebbe divorato anche l’assonnato aiuto cuoco che gli riscaldò la pietanza.

Le vacanze estive proseguirono poi senza intoppi, per tre settimane da sogno sull’isola verde, che ebbero il potere di far dimenticare al professionista i problemi dello studio e la povera cagnolina soppressa.

Il lunedì del primo giorno di lavoro, il dottor Gardenia, dopo aver distribuito i regalini d’obbligo alle donne dello staff, ed avere offerto il caffè d’ordinanza, fece un giro per la clinica, ma al momento di controllare i box di ricovero, gli prese un mezzo accidenti: accomodato tranquillamente dentro uno dei gabbioni più grandi c’era nientedimeno che il fantasma di Lilly!

Alessandra e Marisa, che lo accompagnavano mentre raccontava dell’avventura in alto mare, lo guardarono entrambe sottecchi e con un sorrisino appena accennato, come per scusarsi di qualche guaio combinato, lui invece, che aveva alzato la testa di scatto per guardare negli occhi le due collaboratrici, aveva un nodo alla gola così grosso da non riuscire a profferire parola: la morte di Lilly gli tornava spesso alla mente, come una colpa troppo pesante da portare.

«Alessandra non ha avuto il coraggio di farlo, allora ha chiesto il mio aiuto – sussurrò Marisa – ma io dopo aver preso in mano la siringa non ce l’ho fatta… Di comune accordo ci siamo prese la responsabilità di curarla, abbiamo comprato i farmaci e abbiamo fatto tutti gli esami e le terapie possibili ed immaginabili… hem, il risultato è quello”,  puntando il dito verso la cagnetta che, sentendosi osservata diede la stura a tutto il suo repertorio di moine, sfregamenti e uggiolii compiaciuti.

«È guarita, avete fatto un miracolo!»

E sembrava guarita veramente, Lilly non aveva più perdite di sangue, niente forfora nè piaghe sul corpo, non più occhi cisposi e arrossati. Era ingrassata, il pelo lucido e folto, le movenze flessuose, la lingua rosea penzoloni a leccarsi ogni tanto il nasone tornato nero e umido.

«Le analisi sono ottime, anche se è rimasta una lieve positività alla malattia, ma quella lo sai, rimarrà sempre! » continuò Marisa.

«Va bene, l’avete guarita, meritate un bacio in fronte.»

Il principale fece seguire le parole ai fatti, “Ma ora, chi lo dice alla sua padrona?»

«Quello è compito tuo! – sbottò Alessandra – Sei tu il capo!»

Qualcosa mi inventerò, pensò il dottor Gardenia, confidando ingenuamente sulla sua illimitata fantasia.

«Pronto….hem…signora…hem…è la mamma di Lilly?»

“Ma, scusi, chi parla?»

«Hem, qui è la clinica…hem…sono il dottor Gardenia…»

«Salve dottore, è tornato dalle ferie?» A lui sembrò di cogliere una lieve aria di rimprovero nelle parole della donna.

“«Siii, hem…signora, dovrebbe farmi una cortesia: potrebbe passare per lo studio quando ha tempo, dovrebbe mettere una firma che abbiamo dimenticato di chiederle, sa per l’anagrafe…»

«Va bene dottore, vengo appena posso, arrivederci.»

«Alla faccia della fantasia!”

Marisa si era appostata dietro la porta della sala visite, per ascoltare la comunicazione.

«Alla signora le farai venire un colpo!»

Colpo fu.

La mamma di Lilly andò all’ambulatorio dopo un paio di giorni, una splendida mattina di agosto rinfrescata da un teso vento di maestrale che ripuliva il cielo dagli ultimi sfilacci delle nuvole di calore, si sedette ed aspettò con pazienza.

«Si sieda signora, prego, le devo parlare.»

Il dottor Gardenia annaspava leggermente, avrebbe preferito trovarsi ancora in alto mare in balìa delle onde, anzi sentiva già una certa nausea, che non aveva provato nemmeno alla vista del faro di Punta Carena.

«Abbiamo commesso forse una leggerezza.»

La signora, a quel punto sbiancò in volto, e si appoggiò alla scrivania per non cadere, tante le emozioni ed i pensieri che le frullavano nella mente, ma prima che potesse collassare, si udì un forte raspare alla porta, che subito si aprì esplodendo nel fantasma di Lilly, che saltò in braccio alla padrona, buttandola giù dalla sedia e leccandole il viso e le mani per farla rinvenire.

Dopo un attimo di mancamento, gli abbracci divennero reciproci: signora, Lilly, Marisa, titolare e Alessandra, tutti uniti nella gioia di aver contribuito, chi più, chi molto meno a resuscitare un cadavere.

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto Cuori sui generis” 2019.

 

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