Culturaracconti

Il Racconto, L’Isola dell’imperatore

Con questo simpatico racconto il dottor Gardenia, medico veterinario,  riesce a portare il calore dell’estate nell’inverno dell’isola di Capri

di Lucio Sandon

Il Comandante era un uomo molto ricco, ed era anche molto simpatico. Già l’aspetto ispirava al buonumore: grossi baffi bianchi, le cui punte all’insù incorniciavano una bocca sorridente e sembravano indicare le folte sopracciglia candide che ombreggiavano gli occhi azzurri, e gli occhi sembravano sempre vedere qualcosa che li divertiva. Una sottile striscia di capelli bianchi incorniciava una grossa testa calva ed eternamente abbronzata, mentre l’imponenza del fisico massiccio anche se non molto alto, era mitigata da un abbigliamento sportivo e volutamente fuori moda.

Quando il comandante voleva qualcosa, la otteneva. E la otteneva subito.

«Buongiorno dottor Gardenia, sono ‘o comandante

«Buon giorno Comandante, che piacere sentirla!»

«Dottò, non ho chiamato solo per il piacere di sentirla, ma perché Minnie si è tagliata sotto ad una zampa e perde molto sangue. Mi dovrebbe usare la gentilezza di venire subito a vederla!»

«Certo Comandante, vengo immediatamente a prenderla a casa, intanto lei dovrebbe fasciare la zampa strettamente…»

«Dottò, non siamo a casa, siamo alla villa di Capri.»

«Ah, questo è un problema! Però c’è un veterinario in paese. Potreste portare Minnie da lui, oppure farlo venire urgentemente da voi…»

«Abbiamo già chiamato, ma il veterinario qui fa servizio solo tre volte alla settimana. Oggi era anche il suo giorno, ma è ammalato ed è rimasto a Napoli, però anche se ci fosse stato, dubito molto che sarebbe riuscito a visitare Minnie.»

«Dottò, lei deve venire subito a Capri. Lo sa bene che non faccio questioni economiche, ma Minnie è molto abbattuta, la ferita è grande, mi fa un po’ paura vederla così: volevo subito portarla lì da lei con la barca, ma si è messa sotto ad un cespuglio e soffia se qualcuno si avvicina per prenderla… Ho paura che possa morire e ho paura anche di toccarla! Adesso il sangue esce di meno, ma se si agita di nuovo per spostarla non so cosa può succedere!»

Il comandante non aveva tutti i torti: Minnie era uno splendido esemplare di un anno di panthera pardus, nella variante di colore completamente nera: un turbine di gioiosa energia e un’incontenibile voglia di giocare. Nella bestiola, solo una conturbante violenza nei movimenti, tradiva la sua natura atavica.

La pantera nera era arrivata a lui all’età di tre mesi, sbarcata con uno dei mercantili del comandante, proveniente da Bangkok. Quello che sarebbe diventato uno splendido e inquietante animale, era in quel momento in condizioni pietose: un cucciolo terrorizzato chiuso in una gabbia di legno, coperto da piaghe e parassiti.

Il Comandante lo aveva notato per caso mentre veniva scaricato di nascosto dalla nave, ma la manovra di occultarlo in un grosso borsone non era sfuggito all’occhio esperto del vecchio lupo di mare, che aveva immediatamente fatto bloccare il disgraziatissimo marinaio malese. Il lurido contrabbandiere, intendeva vendere la povera bestia sul ricco mercato dei malavitosi locali, che si facevano vanto di possedere animali feroci come e più di loro.

Il Comandante aveva deciso di far curare la povera bestia dal suo veterinario di fiducia, per poi donarla allo zoo, ma dopo poche settimane di coccole e cure amorose, inframmezzate spesso e volentieri da bocconcini sottobanco da parte dell’ormai innamorato salvatore e dalla sua famiglia, Minnie aveva dimenticato i maltrattamenti subiti ed era diventata l’inseparabile compagna del brav’uomo. Il suggello all’eterna amicizia e il primo sintomo del morboso attaccamento, era stata la festa del battesimo di Minnie.

L’incolpevole cucciolo era stato fatto benedire nella basilica di una città vicina, giusto per evitare che la voce dell’evento si spargesse nei dintorni della residenza del Comandante, e il popolino cominciasse subito a giocarsi i numeri al lotto. Dopo la cerimonia c’era stata la festa nel giardino della villa: buffet pantagruelico, orchestrina, balli e fuochi d’artificio, con Minnie che si aggirava felice tra i tavoli  ingozzandosi di vol au vent al caviale e di grosse fette di torta alla crema, senza peraltro risentirne minimamente il giorno dopo, e continuando a ruggire a squarciagola per tutta la sera, con effetto terrorizzante per quasi tutti. Alla fine della serata gli ospiti se ne andarono satolli e soddisfatti, lasciando i loro regali alla piccola peste: ossa finte, vere, sonagli, palline…  E anche una busta, contenente due banconote da centomila lire: evidentemente qualcuno non aveva compreso a pieno chi fosse la festeggiata.

«Mi scusi Comandante, ma come faccio a venire subito a Capri? Ho bisogno di qualcuno che mi aiuti, e poi dovrei andare al porto di Napoli per trovare l’aliscafo! Non so gli orari, e poi in questa stagione il mare è agitato. Ho l’ambulatorio, i pazienti, la…»

«Dottò, poche storie! – lo interruppe il comandante, con voce un po’ stizzita – La mia barca personale è partita poco fa, e il capitano mi ha assicurato che tra mezz’ora attraccheranno al porto di Torre del Greco. Per cortesia si faccia trovare sul molo fra trenta minuti, porti chi vuole e non si preoccupi per l’orario. Se si fa tardi sarà mio ospite. A tra poco.»

Click.

«Marisa, c’è un problema.»

Dopo venticinque minuti Marisa ed il dottor Gardenia erano in piedi sulla banchina del porto, leggermente infreddoliti dall’aria frizzante di un ventoso pomeriggio di gennaio, a osservare i gabbiani che con i loro potenti stridii si rincorrevano nel cielo plumbeo e carico di nuvole sospinte dal largo verso il vulcano, in una massa compatta e grigio scura che non prometteva nulla di buono. Il mare, sotto il soffio gelido del libeccio trasformava le onde in spruzzi, dando l’impressione di essere ricoperto da batuffoli di ovatta.

Il candido yacht del comandante entrò lentamente in porto, e condotto da un’abile mano, attraccò con poche manovre al molo, mentre un marinaio era già pronto con la passerella per imbarcare i due apprensivi passeggeri con il loro carico di borse di cuoio e di domande inespresse.

Il viaggio verso l’isola azzurra fu comodo e veloce come non immaginava nessuno dei due, ma d’altra parte loro non erano mai saliti su di uno yacht di lusso. Fecero appena in tempo a gustare una fetta di torta caprese servita da un ossequioso cameriere in giacca a righe e guanti bianchi, e a rifiutare un flute di champagne, che la barca rallentò davanti al porto di Capri, quasi deserto per l’ora tarda e per il tempo poco propizio alle gite in barca.

La vetusta cinquecento giardinetta, con la capote di stoffa completamente aperta, una delle poche auto abbastanza stretta da potersi destreggiare nelle minuscole stradine dell’isola, era già in attesa dei veterinari, e in breve prese ad inerpicarsi faticosamente su per le stradine che da Marina Grande portano verso Villa Jovis immersa nel suo mare di pini, il punto più bello e selvaggio della Bella Addormentata, la dimora preferita dall’Imperatore Tiberio.

Tiberio Giulio Cesare, dalle terrazze della sua villa di Capri, quella più grande e sfarzosa, dedicata al dio Giove, governò l’impero romano negli anni a cavallo della nascita di Cristo. L’imperatore si era fatto costruire quella che è una delle più grandi residenze private mai concepite dall’uomo, in uno dei luoghi senza dubbio più belli del mondo. Villa Jovis sorge sul bordo di un dirupo detto “Il salto di Tiberio” alto trecentocinquanta metri sul mare, con una vista mozzafiato sul golfo di Napoli, il Vesuvio di fronte, Ischia e Procida da un lato e la baia di Jeranto come dirimpettaio. Sembra che a quelli che l’imperatore considerava traditori o comunque poco meno che devoti, il salto non fosse molto simpatico.

La villa imperiale era un castello da sogno, sospeso tra l’azzurro del cielo ed il blu del mare, oltre settemila metri quadrati immersi in una profumata pineta, disposti su diversi piani e terrazzamenti, che si diramavano da un nucleo centrale costituito da un’enorme cisterna d’acqua la quale doveva alimentare una serie di piscine, le terme e tutti gli altri servizi della villa. Come dépendaces al corpo centrale della villa madre, il figlio di Augusto, si era fatto costruire altre undici ville sulla sua isola. Le altre erano un po’ più piccole e meno lussuose di quella principale, e venivano utilizzate solo nel caso che venisse qualche parente a fargli visita.

Delle ville secondarie, quella che lui preferiva era una che sorgeva direttamente sul mare, nel luogo che viene ancora oggi chiamato “I bagni di Tiberio”: il Palazzo a mare.

La strada si faceva sempre più ripida e stretta mentre costeggiava orti carichi di zucche, finocchi, fichi d’india maturi e di ogni altro ben di Dio, alternati a ville lussuose nascoste da pesanti cancelli, tratti di bosco selvaggio, macchia mediterranea e casette di contadini. A tratti, sembrava impossibile che la piccola vettura potesse passare tra due muretti così ravvicinati senza incastrarsi, ma Giuseppe, l’autista caprese purosangue, procedeva velocemente riuscendo, mentre conversava amabilmente con i suoi sgomenti passeggeri girandosi verso di loro, a fumare, cambiare i canali della radio a tutto volume, gesticolare e maledire chiunque osasse solo incrociare il suo percorso. L’uomo continuava a farsi aria con un grosso ventaglio, incurante del fatto che il sole stesse calando dietro il monte Solaro, e colorasse di riflessi dorati il mare che ormai si vedeva di lontano, mentre la temperatura nell’auto grazie anche al tettuccio aperto, fosse prossima allo zero.

La villa del Comandante era protetta da un alto muro di cinta in pietra, tappezzato da un giubbetto di vite americana ormai rosso fuoco, dal quale spuntavano le foglie argentate di olivi secolari e i languidi corpi dei gatti assonnati, che attendevano il calar del sole per riprendere le loro spietate battute di caccia. Il cancello si aprì docilmente, spronato dal telecomando dell’allegro e impaziente Giuseppe, che ormai sapeva tutto sulla vita del dottor Gardenia e di Marisa, ai quali aveva raccontato gran parte della propria.

Il Comandante, i pugni nervosamente sprofondati nelle tasche dei pantaloni bianchi, presidiava il cancello della villa ed accolse i veterinari con una rapida stretta di mano, strappando un breve lamento a Marisa: lei non si aspettava una mano dura come una morsa d’acciaio, lui era troppo emozionato e spaventato per controllare la sua forza.

Dietro al cancello scorrevole si apriva un grande piazzale lastricato con pietre di nero basalto vulcanico, al centro del quale sorgeva un’enorme fontana di tufo, sulla cui sommità si ergeva una statua di marmo raffigurante una divinità alata, la cui fattura era troppo squisita per essere di origine industriale. Dietro la fontana, con una dolce curva a raggio variabile, un’ampia scalinata di marmo scendeva verso i giardini e verso la grande villa bianca. Di lontano, ai piedi di un cespuglio di ibisco rosa, si notava la grossa sagoma nera di Minnie, i feroci occhi gialli puntati verso i visitatori.

Se fossero stati meno giovani e forti di cuore, i due professionisti avrebbero potuto morire in quel momento: con i suoi sensi ultrasensibili la pantera nera aveva riconosciuto i nuovi ospiti, e dimenticando il dolore per la ferita, la febbre, ed il sangue perduto, con due salti di fluido nero come la morte, era saltata sul petto del dottor Gardenia, stendendolo sul selciato di antiche mattonelle vietresi e dimostrandogli il suo affetto con una nasata umida di sangue sul viso, mentre il giubbino di renna che lui considerava nuovo, avendolo acquistato solo dieci anni prima, avrebbe conservato per diversi lustri ancora le tracce delle unghie della belva, oltre alle macchie indelebili di sangue di pantera.

Marisa, che aveva visto il felino spiccare l’ultimo balzo, si era raccomandata l’anima al santo protettore dei veterinari, pur non avendo la più pallida idea di chi fosse, poi avendo visto cadere il suo titolare ed amico, era svenuta senza un lamento.

Si risvegliò dopo qualche minuto, con nelle orecchie la litanìa del signor Giuseppe che la implorava sottovoce «Signurì, ripigliateve!» mentre le somministrava delicati schiaffetti sulle gote pallide.

Nel frattempo il dottor Gardenia cercava di rialzarsi e di ripulire sommariamente il prezioso capo di abbigliamento, mentre il Comandante soccorreva la sua Minnie, tenendole la testa massiccia tra le sue manone, e sussurrandole dolci parole nelle orecchie vibranti.

Superata la prova delle coccole, Minnie venne visitata sul posto: dato che risultava impossibile controllare la gravità della ferita, a causa dei bruschi movimenti della pantera nera, si procedette senz’altro alla sedazione con una iniezione intramuscolo, cosa tutt’altro che semplice, e comprensibile da chiunque abbia mai provato ad effettuare un’iniezione a un gatto domestico. L’operazione venne resa possibile solo per l’intercessione del Comandante, il quale infilò la sua mano tra le fauci della belva, consapevole del fatto che Minnie avrebbe potuto staccargliela con morso, ma ben sicuro che la sua feroce amica non avrebbe mai potuto fargli del male.

La ferita alla zampa anteriore era profonda, ma non era stato lesionato alcun tendine: venne disinfettata e suturata, senza fasciarla, onde evitare che le garze potessero essere ingoiate dall’animale non appena si fosse svegliato. Una forte dose di antibiotico venne somministrato subito, ed altro venne prescritto per i giorni successivi, dopodiché l’animale venne trasportato a forza di braccia nella camera da letto del Comandante, e ricoperto con un plaid di cachemire, dai fedeli servitori del novello imperatore. Il dottor Gardenia e la dottoressa Marisa vennero invitati a rinfrescarsi nel lussuoso bagno al pianoterra della villa, poi il Comandante li accolse nel salone della sua casa, profondendosi in scuse ed in ringraziamenti per averli fatti catapultare fin lì d’urgenza.

«Caro dottore, carissima dottoressa, come potrei esprimere la mia riconoscenza per la vostra squisita cortesia?»

«Beh, Comandante, intanto potrebbe saldare il conticino. Forse a prima vista potrebbe sembrare un po’ caro ma non è così, poi se non le dispiace potrebbe farci dare uno strappo fino a casa.»

Il Comandante in quel momento dimostrò tutta la sua magnificenza non scevra di senso dell’umorismo e di sportività: estrasse di tasca un foglietto oblungo ed una penna, scarabocchiò una rapida firma in basso a destra e lo porse allo stupito veterinario.

«La cifra la metta pure lei, e calcoli anche il mio omaggio personale per il fastidio arrecato alla gentile dottoressa, il suo giubbotto nuovo, una cena nel miglior ristorante di Capri e un pernottamento… Avrà notato che si è fatto un po’ tardi e a meno che non decidiate di accettare la mia ospitalità, non vi resta che scendere al porto e prendere il primo traghetto del mattino: le condizioni attuali del mare non permettono di far uscire barche come la mia, e comunque il capitano non rischierebbe la vita del suo equipaggio.»

Il ritorno verso il porto fu molto più tranquillo e rilassato dell’andata. Giuseppe guidava con due mani, tetto chiuso, la radio spenta. Solo il finestrino mezzo aperto permetteva al fumo della sua puzzolente sigaretta di ammorbare l’aria cristallina dell’isola azzurra, mentre i piccoli fari dell’utilitaria fendevano le tenebre rivelando a tratti le bouganvilleee ancora in pieno fiore.

«Nun ‘o date retta ‘o Comandante!»

I due passeggeri si erano quasi assopiti, stremati per le emozioni contrastanti di quel pomeriggio autunnale.

«A lui ci pare facile spendere tre-quattrocentomilalire per una camera al migliore albergo di Capri.»

I due passeggeri, sul sedile posteriore si erano risvegliati e si guardarono negli occhi con aria interrogativa.

«Voi siete giovani, magari vi dovete sposare… Risparmiatevi quei soldi per altre cose! Se vi accontentate, mia sorella ha una pensione proprio vicino al porto, pulita ed economica. E senza offesa, cucina meglio del miglior cuoco del grande albergo!»

I due passeggeri si dovevano sposare, anche se non fra di loro, e dopo essersi scambiati una breve occhiata, annuirono all’unisono verso lo specchietto retrovisore della giardinetta bianca. La Pensione da Mimì si nascondeva dietro un piccolo giardino di limoni: bastava solo scendere una rampa di scale per trovarsi sul molo dei traghetti per Napoli, ed era proprio come l’aveva descritta il buon Giuseppe, piccola e pulita. Un po’ troppo piccola, in verità: nonostante si fosse fuori stagione e di martedì, le stanze erano tutte occupate tranne due matrimoniali, delle quali una con vista mare, che venne presa dopo una breve titubanza, causa prezzo stracciato in virtù dell’ora ormai tarda, e per la raccomandazione del non disinteressato autista.

Giuseppe non diceva bugie: Elena, la sua sorella maggiore, non aveva rivali in cucina, specialmente nei piatti della tradizione locale. I due colleghi furono molto divertiti dall’esordio della cuoca, che rivelò di non avere quasi più nulla da servire, però poteva arrangiare qualcosina… Sautè di frutti di mare, vermicelli alla polpa di ricci che avrebbero potuto da soli valere il viaggio di andata e ritorno a Capri, e poi una pezzogna, un pesce che si pesca solo nel golfo delle sirene, all’acqua pazza.

A Capri l’acqua diventa pazzerella perché è un po’ strana e imprevedibile. È soltanto un’altra delle meravigliose e immaginifiche definizioni popolari: è un “come si può”, ciò che ogni pescatore sulla paranza o massaia nella sua cucina può fare, come è possibile, per insaporire e rallegrare il suo pesce: acqua, (anticamente si usava direttamente quella del mare), vino bianco, e poi olio, prezzemolo, pomodoro, aglio e basilico.

Un sogno.

La cena venne illanguidita da una oblunga bottiglia di vino bianco del monte Solaro, seguita da una fetta del dolce tipico caprese e da troppi bicchierini del limoncello fatto dalla signora Domenica. Una passeggiata verso il porto deserto e ventoso, sotto una mezzaluna caprese che illuminava tutto il mare fin verso la costa della grande città, non servì a snebbiare le menti dei due giovani, che tornarono verso la pensione ridacchiando sottovoce al ricordo delle avventure di quella strana giornata. La camera era un po’ fredda: fino a pochi giorni prima i turisti facevano ancora il bagno sulla spiaggia vicina, e la signora Domenica aveva solo da poco acceso il riscaldamento, però Marisa e il dottor Gardenia non ci fecero caso. Accaldati per le fatiche della giornata, e per le abbondanti libagioni, fecero una rapida doccia e si infilarono sotto le coperte, spegnendo la luce. Solo in quel momento si resero conto che non avevano il pigiama.

A Capri una camera può essere molto calda anche senza riscaldamento, in una notte d’inverno.

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto Cuori sui generis” 2019.

 

Articolo correlato:

https://wp.me/p60RNT-4kS

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *