Cultura

Il Teatro, Lavali col fuoco!

NAPOLI –  Al Teatro Elicantropo andrà in scena fuori stagione da giovedì 5 ottobre alle ore 21 con repliche fino a domenica 8 il debutto di Lavali col fuoco!, cantata semiseria con la drammaturgia di Aurelio Gatti e Mario Brancaccio.

Lavali col fuoco! è l’opera prima del Gruppodel’79, per la regia di Aurelio Gatti.

Presentato da Magica Sasin collaborazione con MDA Produzioni, Teatri di Pietra e Gruppodel’79, Lavali col fuoco! mette in scena frammenti di canzoni e prose tratte da grandi autori partenopei, in una riproposizione tutt’altro che antologica.

Mario Brancaccio, Simona Esposito, Lello Giulivo, Maurizio Murano, Anna Spagnuolo, Patrizia Spinosi daranno vita, in scena, al bradisismo psichico degli interpreti e della loro storia recente, le surrealtà e le deflagrazioni di un gruppo di attori che non si convincerà mai a scomparire, accompagnati dalla musica dal vivo di Michele Bonè.

Il progetto parte da un famoso articolo scritto da Antonio Ghirelli in occasione di un’intervista fatta a Pier Paolo Pasolini durante le riprese napoletane del Decameron: «Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà, ma strano, ciò che conta non è questo. Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso, in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte, di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità».

Secondo Pasolini «…è un rifiuto, sorto dal cuore della collettività, una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente, ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto e sacrosanto».

La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vicoli, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere. Nel frattempo, per il diffondersi di un certo irrisorio benessere, tale tribù sta diventando altra.

Da qui il titolo provocatorio e di battaglia Lavali col fuoco!, che, si sa, è il grido di disprezzo rivolto a questa tribù di napoletani da parte di tanti cittadini del nord Italia come del sud. Ma il grido indica anche la differenza, la peculiarità unica e singolare di un popolo, proprio come l’aveva sottolineata Pasolini.

Lavali col fuoco! mostra l’ultimo grido d’insulto a questa tribù che non esiste più, ma anche l’ultimo grido di battaglia di questi guerrieri spartachisti (autori, attori, tecnici, musicisti, artisti dello spettacolo), prima della sconfitta finale e della crocifissione ai nuovi modelli culturali.

Poco più su delle pendici, per un incontro tra simili, è entrato il pensiero di Spartacus e della sua rivolta. In un ristoro sul Vesuvio, l’idea di uomo che con i suoi ideali e con la sua sete di giustizia sfidò il potere di Roma, ci illuminò… per poco. Il tempo che la signora nel servirci esordisse con: «Ma vuie facite teatro! Vuie site attori!» Tra lei contenta d’averci individuato, piatti e un effluvio di parole di ospitalità, il pensiero di Spartaco si ridusse di luminosità ed empatia. Quel facite teatro! era una stima benevola, ma anche un ambito, un perimetro e una misura dei presenti.

Senza volerlo la signora aveva mitigato i nostri pensieri più accesi di rivolta e ribellione riportandoli alla condizione dell’attore. Al caffè, con: «In questo momento, ci volesse un bello Spartaco», amaramente si è conclusa la visione. Tra rimandi e un infinito futuro di progetti da venire, quell’idea di ribellione e rivolta non si è sopita ed è stata sufficiente la rilettura dell’intervista di Ghirelli a Pasolini  di quarant’anni fa per dare sostanza ad una visione. Già, il teatro è fatto di visioni.

Dell’epoca di mutazioni, artificiose e coatte, di società liquide o liquefatte, il teatro – vittima o colluso, ne fa parte e l’idea di rifiuto ad un cambiamento, elaborato altrove e distante tanto dal presente che dal passato, ha dato forma e senso a molte “inquietudini”, teatrali e non.  Dalla percezione dell’ingiustizia, dall’estraneità dei processi avviati – ignari o prepotenti verso ogni identità, dal divario tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere una rivolta. Ora  più che mai necessaria per scrollarsi di dosso quell’obsoleto malessere da comparsa di vite e storie altrui.

Due suggestioni ci hanno accompagnato: quella di Camus «invece di uccidere e morire per produrre l’essere che non siamo, dobbiamo vivere e far vivere per creare quello che siamo» e come contraltare Holloway che sostiene che custodire «una dimora essenziale e non alienata nei nostri cuori» non sia una reazione sufficiente all’alienazione e che non si debba rinunciare a lottare qui e ora, insieme.

In entrambi i casi, senza dottrine, regole o ricette, senza ideologie e ortodossie, senza cedere alla rassegnazione e senza incorrere in facili ottimismi, l’unica visione è quella di costruire comunità parziali, capaci di separarsi con audacia dal pensiero unico e ricreare spazi forse solo temporaneamente liberati, isole di resistenza, piccole antisocietà fraterne e ribelli. Il passo per un’identificazione col gruppo Teatrodel’79 è stato naturale e immediato. (Aurelio Gatti)

Il progetto parte da un famoso articolo scritto da Antonio Ghirelli in occasione di una intervista fatta a Pier Paolo Pasolini durante le riprese napoletane del Decameron: “Napoli è stata una grande capitale, centro di una particolare civiltà, ma strano, ciò che conta non è questo. (…) Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso, in quanto tale, senza rispondere delle proprie possibili mutazioni coatte, di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. (…)

E’ un rifiuto, sorto dal cuore della collettività, una negazione fatale contro cui non c’è niente da fare. Essa dà una profonda malinconia, come tutte le tragedie che si compiono lentamente; ma anche una profonda consolazione, perché questo rifiuto, questa negazione alla storia, è giusto, è sacrosanto.

La vecchia tribù dei napoletani, nei suoi vicoli, nelle sue piazzette nere o rosa, continua come se nulla fosse successo a fare i suoi gesti, a lanciare le sue esclamazioni, a dare nelle sue escandescenze, a compiere le proprie guappesche prepotenze, a servire, a comandare, a lamentarsi, a ridere, a gridare, a sfottere; nel frattempo, per il diffondersi di un certo irrisorio benessere (era fatale!), tale tribù sta diventando altra.

Finché i veri napoletani ci saranno, ci saranno; quando non ci saranno più, saranno altri (non saranno dei napoletani trasformati). I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili”.

Questa geniale e lucida analisi è diventata per noi napoletani operatori culturali un punto di riferimento per considerare serenamente i “luoghi comuni” su Napoli e il suo popolo, una sorta di carta di identità partenopea.

Superando il facile vittimismo che tanti hanno fatto su affermazioni di tal genere e tanta retorica sulla necessità di un riscatto del popolo partenopeo, ci siamo orientati ad analizzare a che punto della sua storia, questa tribù oggi si trovi. “L’irrisorio benessere” ci ha già trasformati? Siamo diventati “altri” da quella tribù originaria?

La nostra ricerca è partita da una considerazione di Raffaele La Capria: “… se la Storia è il modo con cui la cultura si dà conto del proprio passato, a Napoli siamo nel paese di una cultura principalmente orale ed istintuale”.

Abbiamo quindi avviato un percorso di ricerca su materiali poetici, teatrali e musicali che vanno da Fine Ottocento agli Anni ’60, perché ci è sembrato quello l’ultimo periodo prima dello spegnersi di quella caratteristica indicata da La Capria. Abbiamo messo su una performance che è (per dirla alla Giovanni Artieri) … “una testimonianza, un documento, una fantasia e un leopardiano volgersi indietro per inseguire immagini, sentimenti, profumi, parvenze, fantasmi, echi di fuggevoli risate”.

E’ venuta alla luce l’ombra bianca e affiorante di una Napoli tribale e suicida. E può ben darsi che ci venga a giusto titolo rimproverata una ricontemplazione alla quale non abbiamo saputo sfuggire, ma il progetto è anche l’affermazione di un archetipo sottratto all’azione erosiva e distruttiva dei tempi e delle circostanze.

«Perciò tutti temono e invidiano Napoli, e tutti, compresi i disperati, vorrebbero comprarsi, nel loro segreto cuore, una patria napoletana. E il Vesuvio? Il sonno del vulcano ha tolto molto vento dalle vele della fantasia napoletana. Infatti, chi lo osserva, lo guarda ancora come motore, come divoratore o consumatore, come creatore attivo di quanto abbiamo con noi, poiché ingegno, operosità, gesticolazione, parlar molto, urtarsi, minacciare, non sono che impulsi vesuviani. Quella facoltà eruttiva che hanno molte terre napoletane; la argilla della napoletana creatura e la fibra mossa e rimossa degli operosi fluidi elettrici e magnetici che fa del napoletano, spesso un pazzo piacente o un sincero curioso». (G.Artieri)  O citando Ernesto De Martino: un individuo particolare affetto da “bradisismo psichico”.

Lavali col fuoco!ci mostra l’ultimo grido di insulto a questa tribù che non esiste più, ma anche l’ultimo grido di battaglia di questi guerrieri spartachisti (autori, attori, tecnici, musicisti, artisti dello spettacolo) prima della sconfitta finale e della crocifissione ai nuovi modelli culturali.

Lavali col fuoco! mette in scena frammenti di canzoni e prose tratte da grandi autori partenopei in una riproposizione tutt’altro che antologica, essa nel suo dipanarsi mostra il bradisismo psichico degli interpreti e della loro storia recente, le surrealtà e le deflagrazioni di un gruppo di attori che non si convincerà mai a scomparire. (Mario Brancaccio)

 

 

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