Cultura

Il Vesuvio

E allora ti sovviene dell’angolo di paradiso, ti rammenti della grandiosità di Dio, così generoso di bellezza e di incanto, il gigante Vesuvio …

di Sante Grillo 

Quando l’immenso arco dell’orizzonte si rischiara per il diradarsi della foschia ed in alto il cielo si tinge di un azzurro più intenso, la visione del golfo di Napoli acquista una bellezza che nessun uomo riuscirebbe a descrivere. Ho sentito un napoletano, un napoletano “verace”, come qui si suol dire, affermare che Iddio ha voluto  donare a questa regione un angolo di paradiso. Era entusiasta  di questa sua terra e nel descriverla gli occhi gli si inumidivano di lagrime per l’intensa commozione; la sua parola era tanto calda  ed appassionata  che anch’io me ne sentivo contagiato: Napoli  è come una malattia che, una volta entrata nel sangue non può essere più guarita. Chi, infatti, imprimerà nella sua memoria gli incanti e la dolcezza di questa terra con i suoi colori e con i suoi profumi, non riuscirà mai a dimenticarla e si sentirà malinconico se ne sarà lontano.

Allora, risuoneranno nell’animo le inimitabili melodie di “Santa Lucia luntana”, di “ O sole mio”, di “Terra d’ammore”, ed in qualunque parte del mondo ci si sentirà in esilio. “Napule è bella assaie!” è l’esclamazione dei Napoletani  che vogliono esprimere l’affetto per la propria città: non hanno tutti i torti,  Napoli è un incanto e un sogno.

Ricordo ancora quando vi giunsi dal mare, con una delle pochissime navi rimaste all’Italia  dopo le insidie della guerra. Il primo lembo dell’Italia che vedevo dopo ventotto lunghissimi mesi di assenza forzata dalla Patria, era Napoli, la città più bella del mondo sul più incantevole golfo del mondo. Da allora vi sono rimasto come attratto da una forza misteriosa; infatti ha esercitato sul mio spirito lo stesso invito delle sirene sui naviganti. Lentamente vedevo sfilare sotto i miei occhi spalancati dalla meraviglia e col cuore palpitante per l’ansia  Procida e Ischia, mentre, s sulla destra,  Capri si stagliava netta con la sua sagoma inconfondibile.

Il golfo splendente di sole e d’azzurro mi si offriva come la prima immagine della Patria: immagine cara ed ardentemente desiderata!  La città, qua e là lievemente velata di foschia, si mostrava bianca  e luccicante con una miriade di riflessi, come una perla  da un’immensa conchiglia marina.

E su tutto sovrastava il Vesuvio con i suoi agili contorni, in compagnia dei lineamenti frastagliati del monte Somma. Lo vedevo per la prima volta dal mare e sembrava ancor più imponente col suo cono quasi perfetto; un esile pennacchio di fumo si levava ancora verso l’alto a testimonianza di trascorsi gorgoglii di fuoco. Oggi il fumo non c’è più, e i napoletani guardano alla cima del monte con malcelato timore.

Il Vesuvio non è un gigante buono e forse va tramando  qualcosa nelle viscere tormentate dal fuoco: può darsi che ribolla di rabbia e che in cuor suo mediti rivincite di non si sa bene quali torti ricevuti. Sono difficili da trattarsi questi giganti rabboniti; vogliono essere blanditi e tuttavia borbottano ingiurie che senti salire dal più profondo del petto. Malgrado ciò malgrado il timore che incute, i napoletani gli vogliono bene e se per un caso, dotato di virtù magiche, potessi con un colpo di spugna cancellare, come da una tela fresca di colori, la sagoma del Vesuvio, insorgerebbero all’unisono per riaverlo, perché non possono stare senza il loro “amato” nemico.

È come se da un’immensa collana  di gemme  venisse tolta quella più preziosa e si pensasse di sostituirne i legami in fili d’oro con un vecchio filo di spago. Per fortuna, non esiste nessun mago che possa commettere un dispetto del genere e, pertanto, per l’orgoglio dei napoletani, vedremo ancora il Vesuvio al suo posto, fumante o no, ma sempre al suo posto.

Se ci si inerpica su per le sue pendici, lo spettacolo è veramente indimenticabile: hai la precisa sensazione della lotta dell’uomo per sopravvivere e delle forze incommensurabili della natura quando insorge e s’infuria. Il tormento della lava  cristallizzata in un groviglio di massi, che si sono accavallati l’uno sull’altro ti pone dinanzi ad immagini da oltretomba dantesco orrido nel colore e nella forma. Il magma incandescente, nel solidificarsi, ha scavato qua voragini enormi, si è sollevato là in fantasmagorici torrioni di pietra e gigantesche rughe di infuocato corruccio che mostrano il nervosismo di una forza che agisce a sussulti e che non ubbidisce se non alla sua volontà di distruggere o di cambiare il volto alle cose.

Se si cerca di abbracciarne con lo sguardo l’entità, si prova la sensazione del grandioso ed allora ci si sente piccoli ed impotenti di fronte ad una così evidente testimonianza di forza. Il biancore di qualche casa contadina, qualche ciuffo di verde qua e là incastonato nella caotica superficie della massa lavica, indicano come l’uomo creda ancora nella generosità del vulcano e, con una costanza ed una fiducia ammirevoli, va aggrappandosi ancora alla speranza di una definitiva calma per fermare la zolla, per imprigionarla ed avvinghiarla fra le radici degli alberi.

E così, sorge la prima oasi che poi si allarga e si amplia; tu la guardi meravigliato perché, in definitiva, sai  di qual miracolo si tratti.  È il miracolo della volontà, della forza delle braccia, del desiderio di sopravvivere, dell’indomabile caparbietà posta nel cercare di vincere la forza disgregatrice della natura: così rinasce nel tuo animo la fiducia nell’uomo che è vinto e risorge, che sembra distrutto e che vedi far capolino dalle rovine con la volontà di ricostruire e di ricominciare subito, per timore che non faccia a tempo di fornire ai propri figli l’opera compiuta.

Se poi, giunti sulla costa più alta,  ci si volge indietro e si guarda il cielo e il mare, non si può trattenere il fiato per la meraviglia.

Allora ti sovviene dell’angolo di paradiso, ti rammenti della grandiosità di Dio che ha voluto essere così generoso di bellezza e di incanto ed in cuor tuo lo ringrazi per averti concesso uno spettacolo di così grande splendore.

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