Cultura

La magnifica brocchetta della Collezione Farnese

La brocchetta in agata sardonica della Collezione Farnese per Immersioni nell’arte di gennaio sui social del MuCap della Stazione Zoologica Anton Dohrn

CITTÀ METROPOLITANA DI NAPOLI – Una preziosa brocchetta di 17.2 x 7.5 cm in agata sardonica, oro, smalto, rubini, smeraldi che fa parte della Collezione Farnese – si può ammirre nella Galleria delle cose rare, primo piano –  sarà la protagonista della rubrica social Immersioni nell’arte, curata dai Dipartimenti Comunicazione del Museo e Real Bosco di Capodimonte e della Stazione Zoologica Anton Dohrn che fonde contenuti storico-artistici con informazioni di biologia marina.

La brocchetta è stata individuata nell’inventario parmense del 1708, tra le opere della Galleria delle cose rare della raccolta Ducale di Parma, alla voce: … un vaso d’agata sardonica con fogliami tagliati con 5 legature lavorate d’oro smaltato e una serena d’oro smaltato con rubini in tutto 13, smeraldi n. 5 … vi manca suo manico.

Risulta poi registrata in un elenco, nella cassa B, presumibilmente del 1736, relativa al trasporto delle opere d’arte da Parma a Napoli. Si tratta di una registrazione degli invii di oggetti facenti parte della collezione Farnese che Elisabetta, ultima discendente della nobile famiglia, invia a suo figlio Carlo di Borbone, in vista della sua incoronazione a re di Napoli e di Sicilia.

Giunto a Napoli, e poi esposto verosimilmente nel nuovo palazzo di Capodimonte, l’oggetto non è ma i menzionato nelle guide settecentesche, né dai viaggiatori stranieri che visitavano la nuova Reggia in collina.

Nel 1798, giudicandolo un pezzo di grande valore, Ferdinando IV lo portò con sé a Palermo, insieme agli altri oggetti più preziosi della collezione di famiglia, come attesta l’inventario palermitano del 1807, in cui è già descritto come monco in una parte alla base del piede.

Dopo il rientro dei Borbone a Napoli, l’oggetto è esposto nel Gabinetto degli Oggetti preziosi nel Real Museo Borbonico, l’attuale Museo Archeologico, occupando un posto di primo piano. Alla metà dell’Ottocento viene persino attribuito alla bottega di Benvenuto Cellini.

Ha la forma tipica dell’anfora greca da vino, l’oinochóe, ed è scolpita in un unico blocco di agata sardonica impreziosita da cinque fascette d’oro. Quella che orna l’imbeccatura reca una decorazione smaltata a motivi vegetali. Altre decorazioni a smalto sono poste al collo, al nodo, e alla base del piede.

In particolare, al collo sono incastonati sei rubini alternati a fiorellini di smalto verde; al nodo ci  sono quattro rubini e decorazioni a smalto bianco.

Alla base, ci sono quattro rubini, tre schegge di rubini e sei di smeraldi, alternati a piccole decorazioni a smalto.

La fascetta d’oro all’estremità inferiore presenta una decorazione incisa.

Nella parte centrale della brocca c’è una sirena di smalto, dalla coda biforcuta che si attorciglia attorno alle sue braccia. All’attacco delle due code sono incastonati tre rubini e uno smeraldo.

Il corpo del vaso è inciso ad arabeschi ed il collo è a baccellature, manca un pezzo alla base del piede.

Vasi come questo sono frequenti nelle importanti collezioni cinquecentesche; nel corso del Rinascimento, l’Italia settentrionale, soprattutto Milano, vide fiorire una vasta industria della lavorazione delle pietre dure. I committenti di quel tempo ordinavano alle botteghe milanesi notevoli quantità di vasi in pietre e cristallo di rocca. Quelle più note, erano le botteghe dei Miseroni e dei Saracchi, attive nel Tardo Rinascimento e Primo Seicento.

L’opera potrebbe essere stata realizzata proprio a Milano, intorno alla seconda metà del Cinquecento, più ostico darne l’attribuzione all’una o l’altra famiglia di intagliatori. Le legature in oro e gemme, invece, erano spesso eseguite da altri artigiani, orafi e cesellatori, spesso fiorentini e nord europei, così, questa tipologia di oggetti preziosi, finiva per diventare il risultato di uno stile internazionale di corte, più che un bel manufatto del singolo artista.

In quest’opera l’elemento decorativo principale è una sirena, ma come è nata questa figura leggendaria? Per cominciare va fatta chiarezza. Le sirene sono figure della mitologia greca che si discostano molto dall’immagine che le rappresenta come donne-pesce.

Nel mito classico, infatti, erano raffigurate come metà donne e metà uccelli. Esse incantavano gli uomini, marinai che, attratti dai canti, provavano a sbarcare sulla loro isola, naufragando. Esistono degli uccelli pelagici, le berte, che emettono un richiamo umanoide, simile ad un pianto di donna. Questo verso viene emesso in pieno buio, nelle notti senza luna, in prossimità degli isolotti disabitati, su cui questi uccelli nidificano.

Ai tempi dell’antica Grecia il canto notturno di questi uccelli marini avrà certamente sedotto i marinai ed ispirato poeti che hanno dato vita al mito delle sirene per metà donne e per metà uccelli.

Ma quando le sirene hanno perso le ali e messo la coda?

Le ipotesi sono due: la prima è da attribuirsi alla diffusione del Cristianesimo che associava questi esseri mitologici al male e, quindi, non degni di possedere le ali, che erano prerogativa degli angeli.

La seconda ipotesi addebita il drastico cambio nell’iconografia delle sirene ad un errore di trascrizione. La differenza tra pinnis (pinne in latino) e pennis (penne) in effetti è minima e l’errata trascrizione di qualche amanuense avrebbe potuto indurre il disegnatore di un bestiario medioevale latino a dare alle sirene l’aspetto delle donne-pesce che oggi conosciamo.

Anche altri animali hanno alimentato le leggende sul conto delle sirene: i sirenidi. Il primo a descriverli fu Cristoforo Colombo il 9 gennaio del 1493 nel suo diario di bordo verso Hispañola: Ho visto tre sirene emergere dall’acqua. Ma non sono così belle come le dipingono … Si riferiva ai lamantini, mammiferi perfettamente adattati alla vita acquatica caratterizzati da capezzoli in posizione ascellare che, in fase di allattamento, possono ricordare un seno di donna.

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