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La morte sua… Il soffritto napoletano

di Lucio Sandon

Nasce nei quartieri più poveri della città di Napoli, ed è in effetti un insieme di frattaglie di maiale insaporito dal pomodoro e da una generosa spruzzata di piccante e a cui si aggiungono degli aromi a noi molto famigliari come l’alloro, l’aglio e il rosmarino. La stessa formulazione del soffritto fa capire che la povertà è nel dna di questo piatto, la cui base sono frattaglie del maiale, che  rappresentano la parte meno nobile dei tagli di questo animale, i suoi scarti per l’appunto.

La zuppa forte, o soffritto, è un antico piatto della tradizione culinaria napoletana, generalmente preparato nella stagione invernale. Servito su fette di pane casereccio raffermo o utilizzato come condimento per la pasta, il soffritto è una pietanza della “cucina povera” napoletana: per preparalo venivano utilizzate le interiora del maiale (polmone, cuore, reni, milza, trachea, cotenna, scarti carnei, lardo), sugo, rosmarino, peperoncino e alloro. Un tempo lo si preparava in casa, oggi è possibile trovarlo già pronto dal macellaio, basta solo aggiungere dell’acqua e scaldarlo sul fuoco.

‘O zuffritto veniva venduto nella Napoli antica dalle  casalinghe che preparavano la zuppa forte e poi la vendevano in strada per guadagnare qualche soldo. Cominciavano la mattina presto (per cucinare la zuppa ci vogliono almeno 2 ore), ponevano la “fornacella” fuori dalle loro abitazioni e cuocevano le frattaglie in grossi pentoloni. Le persone che si incamminavano a quell’ora verso il luogo di lavoro usavano fermarsi dalle donne con il “palatone” (grosso e lungo pezzo di pane) per imbottirlo con il soffritto e mangiarlo durante la pausa pranzo.

Ad aver amato in modo particolare il soffritto fu il poeta napoletano Salvatore Di Giacomo. Per omaggiare la taverna “La Pagliarella”, al Vasto 65, nel quartiere Vicaria, scrisse questa parole: «…Qui veniva a mangiare gente più fine, che sollevava a onori non più immaginati il suffritto…»

Il soffritto veniva chiamato anticamente anche “tosciano”. I garzoni delle taverne, dove veniva servita la pietanza, erano soliti richiamare l’attenzione dei passanti con le loro voci, riportate in una commedia di Pietro Signorell : «Currite cannaruti (affamati), ca mo’ proprio l′accuppatura de lo tosciano. È cuotto, e tengo pure na veppetella d’amarena che co l′addore te rezorzeta (risuscita) no muorto; currite ‘mbreacune, a sei trise (tornesi) la carrafa e tengo la mangiaguerra pure a doje trise.»

È stata ritrovata la ricetta del soffritto manoscritta sul retro di uno strumento notarile risalente al 1743, probabilmente dettata da una certa Annarella, proprietaria di una taverna a Porta Capuana, frequentata soprattutto da legali, ma è stato Ippolito Cavalcanti, duca di Buonvicino (Afragola 2 settembre 1787 – Napoli, 5 marzo 1859) a codificarla nel suo Trattato di cucina teorico Pratica:  «Prendi un polmone di porco, taglialo a pezzetti e mettilo in una cassarola a soffriggere con inzogna (strutto) abbondante, e se ti piace un senso d’aglio e qualche fronna (foglia) di lauro. Quando s’è ben soffritto aggiungi un paio di cucchiaiate di conserva di peparoli (peperoni) rossi dolci, per darli un bel colore, e cerasielli (peperoncini piccanti a forma di ciliege) in polvere quanti ne vuoi, per darli il forte, aggiungendovi una competente quantità d’acqua col sale o di brodo, e continua a far cuocere tutto a fuoco lento. Se dapprincipio non ci hai posto le fronne di lauro e vuoi darli sapore, mettici a questo punto un mazzetto di erbe aromatiche, cioè Rosmarina, salvia, lauro, majorana e peperna (piperna). Quando vuoi servirlo, togli dette erbe e spargilo fumante nei piatti, sopra croste di pane.»

È facile definire il soffritto un piatto povero date le sue origini, ma in realtà nella nostra epoca è un piatto che sta riscoprendo nuove glorie, perché non solo le frattaglie sono più largamente utilizzate in cucina dai napoletani e non, ma anche perché il suo contributo calorico è davvero importante. Un piatto di bucatini conditi con il soffritto, può unire primo e secondo insieme,  è molto ricco e richiede di essere accompagnato da un vino rosso graffiante, possibilmente tannico e in grado di sgrassare la bocca al suo passaggio. Cosa di meglio allora, che un bel bicchiere di Gragnano rosso?

 

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è La Macchina Anatomica, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo Il Trentottesimo Elefante; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: Animal Garden e Vesuvio Felix, e una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario.

 

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