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La Recensione, Bohemian Rhapsody

di Ciccio Capozzi

Farrokh Bulsara è un giovane iraniano di religione zoroastriana, la cui famiglia per motivi religiosi è immigrata in India, dove ha studiato in scuole inglesi, e di lì a Londra. Anni ‘70: incontra tre musicisti, ai quali si propone come voce solista. Insieme saranno i Queen, e Farrokh diventerà Freddy Mercury.

C’era molta attesa per il film Bohemian Rhapsody  (USA, ‘18) su questo gruppo e sul suo leggendario leader. E la sfida piuttosto difficile: come fare a dare vita ad una personalità così complessa dal punto di vista umano e musicale, diventata una vera icona senza cadere negli stereotipi? La sceneggiatura di Anthony McCarten, basata su un soggetto suo e di Peter Morgan, ha creato tutte le condizioni possibili perché ciò non avvenisse.

Lo script mette in stretta correlazione lo sviluppo della personalità tormentata e complessa di Freddy sul piano umano e la creazione di quella musica del tutto innovativa. I Queen hanno ricreato il Rock. La regia di Brian Singer, autore di I soliti sospetti e di diversi film dei supereroi Marvel,  ha accompagnato con intelligenza e calore umano, lo sviluppo della vicenda biografica di Freddy e dei suoi sodali. Da dire che nella regia, oltre a Singer, è stata utilizzata anche quella di Dexter Fletcher, però non accreditata (cioè non sta sui credits ufficiali del film), in quanto è intervenuto a film quasi ultimato, per contrasti del primo con la produzione. Credo comunque che l’impostazione visuale e strutturale è dovuta a Singer e allo sceneggiatore.

La prima questione è il titolo: perché chiamarlo Bohemian Rhapsody? Perché partire da una canzone? La risposta è proprio in “quella” canzone. È una delle più belle e articolate, sia testualmente che musicalmente, ma anche delle più complesse e, per certi versi, misteriose, dell’intera storia del rock: anzi, dell’intera musica leggera europea. Ed è una delle sequenze più riuscite ed elaborate, come montaggio e struttura, dell’intero film.

Mercury era persona musicalmente molto colta e preparata: grande conoscitore e amante dell’opera lirica, ha disseminato, con la complicità creativa e l’accordo degli altri tre musicisti, numerosi elementi di riflessione sul suo tormentato percorso di scoperta personale, di genere: dal Faust goethiano a Mozart, dalle tradizioni sette-ottocentesche (quello Scaramouche ripetuto) al suo amore per l’astronomia (Galileo).

La sua natura omosessuale è stata tenuta nascosta a lui da se stesso. Ed è Mary, donna sensibile sua moglie per 7anni, ma che gli resterà protettivamente sempre vicina, a farglielo capire con assoluta chiarezza.

L’attore, bravissimo, che lo interpreta, Rami Malek, affronta questo faticoso percorso con una sensibilità estremamente interiorizzata; che mette in evidenza la sua fragilità umana. Ma di come questa sia situata sul crinale dell’implosione e dell’autodistruzione: questo è il senso vero e profondo del suo lasciarsi andare a stravizi e a rapporti omosex occasionali e sfrenati. Ma soprattutto coll’affidarsi allo pseudo amico, manager e amante Paul Prenter, interpretato con viscida adesione da Allen Leech. Solo quando romperà con lui, su intervento di Mary che, in un qualche modo, è sempre a lui vicina, potrà ricomporre la band, dopo che, per qualche anno Freddy, su istigazione di Paul, aveva tentato la carriera di solista.

Ed è a questo punto che confida al resto del gruppo di essere stato infettato dall’AIDS. Gruppo che di fatto era l’unica famiglia che abbia mai veramente avuto per vicinanza affettiva, di vita, di stima e di comune concezione della musica, parte per lui fondamentale.

La vicenda personale di Mercury è nota: però la commozione che è tratta da questi momenti di forte patetismo, è molto controllata. Gli autori, regista e sceneggiatore, non insistono sul chiagnazzaro (l’intenerimento obbligatorio a buon mercato, alla Barbara D’Urso per intenderci), quanto invece, con maggiore, perché non scontata, efficacia drammatica, sulla manifestazione della loro profonda amicizia e commossa quanto silenziosa solidarietà.

Qui il gruppo assume una struttura narrativa di personaggio corale, insieme al loro manager Jim Beach, il misurato, conosciuto e attento attore Tom Hollander. Del resto erano tutti musicisti di talento: Brian May, l’attore Gwilyn Lee, l’eccellente chitarrista dagli assolo trascinanti e sempre adeguati, forse il più saggio ed equilibrato, il batterista Roger Taylor, l’attore Gwilyn Lee, Ben Hardy, il più riottoso, il bassista John Deacon, l’attore Joseph Mazzello. Sono personaggi non marginali, costruiti con efficacia e sintesi gestuale.

Ma tutta la potenza ideativa del film si concentra e chimicamente “precipita” nella lunga, trascinante e bellissima sequenza del concerto di Wembley del luglio 1985, fatto nell’ambito dell’iniziativa Live Aid ideata da Bob Geldof, con cui chiude il film. Un momento di sintesi perfettamente riuscita tra la  geniale musica dei quattro e lo sterminato pubblico, reso parte viva dello show dall’inesauribile energia della band.  Tutti i fatti narrati nel film son  praticamente un flashback incastonato in quel punto clou della vicenda umana e musicale dei Queen e di Freddy Mercury, che morirà nel 91 di AIDS.

È di una potenza epica e di montaggio impressionante: che è di John Ottman, che spesso collabora con Singer, bravissimo e che non a caso ha curato anche l’assemblaggio delle musiche.

Il ruolo attivo, prorompente, entusiastico della folla nell’essere coinvolta nella musica e nelle canzoni di quel gruppo è il più bell’omaggio che si possa ideare per rappresentare la grandezza di Mercury e degli altri musicisti.

 

 

Ciccio Capozzi, già docente del Liceo Scientifico

porticese Filippo Silvestri, è attualmente

Direttore Artistico del Cineforum

dell’Associazione Città del Monte|FICC al

Cinema Teatro Roma di Portici.

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