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La Recensione, Il filo nascosto

di Ciccio Capozzi

Il filo nascosto. Reynolds Woodcock nella Londra anni ‘50 è un mago del fashion. La sua Maison è il must irrinunciabile di donne nobili, ricche o aspiranti tali, che vogliono essere eleganti, alla moda. Ma è un uomo solo e lunatico. Incontra Alma, che cambierà radicalmente la sua esistenza.

Il regista e sceneggiatore, e anche produttore, di questo film (USA-UK, ‘17) è il californiano Paul Thomas Anderson (da non confondere con Wes Anderson, altro autore di culto del cinema Usa). Da spettatore, la prima cosa che mio sono domandato, allorché ho saputo del film, è la ragione che ha portato P. T. Anderson a confrontarsi col mondo della moda e, in più, nella Londra di quegli anni: e non, per esempio, a Parigi, dove a quell’epoca, operavano Cristobal Balenciaga, Hubert de Givenchy, o Christian Dior. Maitres di genio, d’indiscusso glamour e storica qualità, le cui Maisons sono ancora oggi operanti: che, peraltro, lo stesso regista ha dichiarato di aver preso a modello.

Posto che le vie dell’ispirazione di un regista/autore sono spesso misteriose e perfino a loro imperscrutabili, mi sono dato la risposta che il peso della tradizione parigina avrebbe finito con annullare la peculiarità dell’approccio del regista. Che ha inoltre citato, sempre per quegli anni, uno stilista meno internazionalmente noto, ma di successo, benché in ambienti più ristretti, però molto esclusivi: l’inglese Michael Sherar, oppure Charles James, inglese ma operante negli Usa, la cui caratteriarialità ombrosa è stata presa a modello per Reynolds.

In realtà Il filo nascosto non è un film “sulla” moda, ma attraverso la moda. E nemmeno si può affermare che la moda diventa un luogo di metafora, di una qualunque dimensione da approfondire in parallelo, su cui apporre il sigillo di un qualche “oscuro scrutare” (Philip K. Dick). Ciò a cui punta l’autore è presentare, certo in un contesto preciso e documentato, di tipo vivente, non artificioso, la complessa personalità di Woodcock, della sorella Cyril e del loro rapporto con Alma, la ragazza che entra nell’universo rarefatto epperò scandito con la precisione di un orologio nevrotico, del sarto.

E qui entra in scena la personalità dell’attore, due volte Oscar, Daniel Day-Lewis e il suo profondo e particolare rapporto col regista: egli ha concreato il ruolo insieme all’attore, inviandogli, quasi pezzo per pezzo, la sceneggiatura, e sottoponendola alle sue critiche e osservazioni. Per renderla per lui abitabile e “indossabile”, forse anche in relazioni alle sue, intendo di Day-Lewis, personali nevrosi, come uno splendido e unico vestito. È qualcosa di molto diverso da una “buona” interpretazione. È nota la perfezione maniacale con cui l’attore inglese (ma naturalizzato irlandese) affronta i ruoli: qui è stato messo in grado da Mark Happel, direttore costumista del New York City Ballet, di fare egli stesso il couturier, su indicazione del geniale ed esperto costumista del film, Mark Bridge, l’unico Oscar attribuito al film, sulle tante nominations che ha avuto.

Quel che di «decadente e sensuale che (c’è) nel mondo dell’alta moda», come afferma il regista, diventa pura ossessione di controllo e di dedizione totale, assolutizzante in Woodcock. I suoi incontri con l’universo femminile sono profondi e fecondi solo nell’ entità onirica della creatività: egli vi si accosta con artistica comprensione e “descrive” la bellezza con dei disegni e degli abiti di un incanto folgorante. Ma nei rapporti intimi è intollerante e banalmente distruttivo di una qualunque altra. È come se non vivesse in sé. Esporta i suoi conflitti e squilibri profondi, solo rasserenati dal fare e protetto dal mondo esterno dalla sorella, che però deve essere algida, anche se a suo modo comprensiva e sensibile: una bravissima Lesley Manville.

E qui entra Alma: che significa “nutritrice”.  È donna di una bellezza anch’essa atipica e misteriosa: diventa la sensuale musa del Maestro. Ma non supinamente passiva. Agisce e reagisce in modi autonomi. Benché profondamente innamorata di Reynolds, comprende che l’unica strada ad un rapporto duraturo e profondo con l’uomo, è che egli “dipenda” da lei, e non più (solo) dai suoi fantasmi interiori. Perciò “rovescia il tavolo” dei rapporti, stabilendo una sorta di controllo sulla sua fragilità, e fa quel che fa (non voglio spoilerare). È lei che “nutre”, asseconda e stabilizza il talento dell’artista in una complessa e serrata relazione. L’attrice lussemburghese Vicky Krieps ne dà una rappresentazione strepitosa: già a partire dalla sua sola, semplice presenza, che è ironica, sorridevole, attenta; ma anche di grande fascino visivo e innocentemente, immediatamente glamour: tale da diventare la “sua” modella di partenza per ogni importante partenza creativa. E  la cui ben scelta voce italiana di Benedetta Degli Innocenti, sottolinea la dolcezza, ma non mielosa, elusività ma in grado di determinarsi con forza in relazione agli altri. E soprattutto al suo amore, come ci dice in quella sorta di intervista in flash back che accompagna la parte iniziale e centrale del film. È un rapporto ricchissimo di sfumature.

Ed è la forza di Il filo nascosto. Il “filo”, che nel titolo originale è “fantasma”, mentre nella traduzione italiana è “nascosto”, è quella traccia segreta che lo stilista appone in ogni suo abito: perché è parte integrante di un originale percorso creativo all’interno di un mondo che egli crea e immagina per la bellezza dell’universo femminile, in ogni singola donna. La cui presenza-guida è la madre: ma che ha le forme di un’ossessione; ecco perché Alma quando lo individua, lo cancella. È un film di grande ricchezza tematica e psicologica. Osannato unanimemente dalla critica, potrebbe lasciare sconcertato lo spettatore che non “si lasciasse andare” al viaggio interiore all’interno dei personaggi; e non cercasse di penetrare, insieme a loro, nel loro universo fantasmatico e interiore. Da segnalare la produttrice del film: Megan Ellison. La sua Annapurna Production ha coprodotto il film insieme al regista Anderson. Figlia del plurimiliardario fondatore della Oracle, si è dedicata con successo, coraggio e intelligenza lungimirante alla produzione del cinema d’autore: diventando una delle più influenti protagoniste di Hollywood.

Ciccio Capozzi, già docente del Liceo Scientifico

porticese Filippo Silvestri, è attualmente

Direttore Artistico del Cineforum

dell’Associazione Città del Monte|FICC al

#Cinema #Teatro #Roma di Portici.

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