Cultura

La recensione, It follows

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Nei pressi di Detroit, Jay, una normale adolescente, belloccia e intraprendente, dopo una serata d’amore in auto, scopre che il fidanzato le ha rifilato un demone che la insegue per ammazzarla.

Come più e più volte è stato detto, l’estate, per il cinema soprattutto italiano, è la stagione dei misteri e del crepuscolo: nel senso che, per “chiudere” le loro programmazioni, le sale tutte, cineplex compresi, mettono film da cui non si aspettano granché d’incassi, perché hannocosti di distribuzione ridotti, se non sono residui di passate stagioni. Spesso è cinema di qualità: ma nemmeno gli esercenti lo sanno (o se ne fregano).

È come se l’estate venisse in forte anticipo: dalla fine di maggio, c’è aria di “chiusura estiva”. Ed è un fenomeno cui i produttori-distributori italiani per miopia e incapacità programmatoria, non sanno e non vogliono mettere argine, favorendo in tal modo la già presente, ormai sedimentata, volontà del pubblico di allontanarsi.

Le programmazioni che girano sono soprattutto horror, spesso – ma non sempre – mezze-botte, le uniche comunque in grado di attrarre pubblici giovanili estivi. Ed ecco il mistero: nel silenzio di questa fine stagione, è riapparso, come da una polla carsica, questo filmetto, perché tale è produttivamente, costato un mln e 300m dollari, ne ha incassati 25, del 2014 (USA).

Già presentato a Cannes in quell’anno in una sezione collaterale, dove era stato notato, It follow nel corso del 2015 aveva esaurito la sua corsa distributiva in patria e all’estero, tranne che da noi. Ed è un bel film.

Si presenta come uno school-boy drama, ovvero una narrazione di dinamiche giovanili d’ambiente scolastico, con adolescenti ancora da liceo, diremmo noi. Dove i protagonismi e le problematiche che li accompagnano sono soprattutto inter-adolescenziali o familiari.

Ed è qui che s’innesta l’intrusione oscura, inarrestabile e invasiva, ma sottile, dell’orrore. Come è stato detto, non è splatter, con quantità industriali effuse di sangue e interiora varie. Non è un torture porn: non c’è alcun compiacimento sadico nel torturare; ovvero: non si ricerca alcun risultato espressivo in questa modalità.

Ma chi è e che vuole questo demone, che prende sembianze di maschio o di donna quasi indifferentemente? Non lo dice; né viene spiegato: ma soprattutto non c’interessa. Perché “esso” è lì, appresso a noi. In italiano non esiste un pronome neutro di terza persona, l’It inglese, che renda questa particolarità di assoluta inessenza. Non a caso il grande Stephen King ha definito in It , titolo di uno dei suoi capolavori, la figura di un demone nelle forme di clown: cui il regista e sceneggiatore David Robert Mitchell certamente si è ispirato.

Come anche richiama il libro il gruppo di amici sodali che accompagna e sostiene Jay. E da cui sono rigorosamente tenuti lontani i genitori e in generale gli adulti: sembrano tutti orfani, benché vi siano sullo sfondo solo madri separate.

L’unico “padre” che appare è il Dostoevskij di L’Idiota, oggetto di lettura di una teen del gruppo, che è citato per ben due volte. Non hanno nemmeno i telefonini. Vivono come sospesi in un ambiente urbano che sembra il teatro di una favola crudele: sono tutti spaesati e senza radici. Sono case “da sprofondo”: quelle inurbazioni prossime alle città, con casette monofamiliari, giardinetti e auto. Sappiamo che è Detroit:, ma potrebbe essere un qualunque posto dove ci sia una scuola superiore, un supermercato, un ritrovo per ragazzi e un cinema.

Questa indifferenzialità seriale dell’urbanesimo di scenario americano, è tipica di quella cultura d’insediamento: sono realtà simili, progettate e costruite, volutamente, in serie, con costi di scala ridotti. Ma così alienanti. In cui il disuso e la rovina di precedenti insediamenti, magari assai prossimi a quelli più recenti, sui quali non conviene fare manutenzione, porta semplicemente all’abbandono e alla creazione di zone oscure, piene di insidie e di pericoli. Come nelle favole.

Son quelli i “boschi e le selve” su cui non bisogna avventurarsi: tipo Cappuccetto Rosso o Hansel e Gretel. Questo universo fantasmatico ci è suggerito con pacata proprietà stilistica. Ad esempio: sono frequenti le panoramiche circolariche hanno la funzione di connettere e includere visivamente, senza ricorrere a soluzioni di montaggio, tutti gli elementi presenti e su cui si vuole concentrare la propria attenzione.  Ciò, nel mentre stempera la tensione, crea le condizioni per accrescerne la valenza nell’inquadratura successiva. Ciò richiede un controllo dei tempi e un uso della musica estremamente attento ed efficace.

E qui il contributo del giovane musicista elettronico newyorkese Richard Vreeland, in arte Disasterpeace, è stato essenziale ed autoralmente, in sé, di grande qualità. Come i Mokadelic di Gomorra/Serie TV, Vreeland ha creato uno spazio sonoro che ha espanso al massimo la concentrazione visiva costruita dal regista: e l’ha totalmente caratterizzato. Non è semplicemente un “accompagnamento”, ma un potente costruttore di atmosfera. Anzi, di “quella” specifica situazione in cui tutti vivono come in una cappa. E si confrontano con “il mostro”. Ma è una storia “vera”, perché nulla è alterato: la disposizione degli oggetti quotidiani è la medesima. Solo la distruzione di vite, e lo capiamo fin dall’inizio con la prima “vittima” sulla spiaggia, è assurda.

Si presenta, in definitiva, null’altro che come variante di una traiettoria di apparente normalità: tutto sommato accettabile, e non tale da creare allarme sociale. Ricorda il detto di Carl Theodore Dreyer, il grande regista danese, a proposito del suo Vampyr (‘32): “una storia reale in una strana atmosfera”. Del resto, la cultura filmica del regista si vede anche nelle sequenze della piscina, che ricordano alcuni passaggi del capolavoro Catpeople (USA, ‘42) di Jacques Tourneur. Ma è un “fare cinema” disinvolto che punta a creare situazionioriginali psicologiche, e di trascinamento collettivo dei personaggi. La sceneggiatura ingloba molte ed efficaci notazioni “laterali” che danno spessore ai singoli personaggi.

Il meglio rifinito è Jay, la protagonista, l’attrice Maika Monroe. Non perde né la sua umanità né la sua personalità, e mantiene il rapporto coi suoi amici. Tra i quali spicca Paul, l’imbranato ma innamorato di lei, che però reagisce meglio: l’attore inglese Keir Gilchrist.

La direzione della foto contribuisce molto a sviluppare quell’atmosfera cromatica di complessa stratificazione urbana, in cui degrado convive con rispettabilità a distanza di pochi isolati: è il giovane Mike Gioulakis, in grado di muovere la macchina da presa con pieno ed adeguato controllo.

Ognuno riconosce i propri mostri…

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