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La Recensione, It

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Anni ‘80: sette ragazzi “perdenti”, indicati come tali dal resto della scuola, si scontrano duramente con il pagliaccio assassino Pennywise, che fuoriesce dalle fogne di Derry, nel Maine, ogni 27 anni a caccia di bambini da divorare.

Già nel ‘90 fu fatta una serie tv su questo libro di Stephen King, uscito nell’86, con Tim Curry nella parte del mostro. Lo scrittore è oggi unanimemente indicato come uno dei massimi statunitensi: non più limitato (nel senso di “segnato”) dal genere horror. E It è considerato uno dei suoi capolavori.

Le dinamiche colà descritte appartengono ad una delle più sofisticate e profonde antologie di riflessioni sui traumi dell’età adolescenziale, affrontati in chiave di metafore psicologiche collettive. La sua apparente “semplicità” espositiva, comune a quasi tutta la sua produzione, l’ha resa immediatamente un’inesauribile miniera di ispirazione cinematografica. Ma il procedere della sua scrittura ha l’apparente sicurezza del ghiaccio sull’acqua: si può sbriciolare e ti fa cadere. Si regge su un sottile e impalpabile equilibrio tra la visionarietà plastica, prodigiosa, delle sue raffigurazioni e uno stile fatto di un tono conversativo, di per sé come distaccato, adottato come filtro: King è uno storyteller, come è stato detto. Un originale, unico “narratore-di-storie, come lo erano i nostri lontani avi attorno al fuoco. Noi ne siamo, contemporaneamente, affascinati e avviluppati; ma ne restiamo anche distaccati in questo miracoloso e irripetibile procedere stilistico.

Da qui l’enorme difficoltà nel tradurre per immagini lo scrivere di King: del resto, non casualmente, è da notare che i peggiori film kinghiani sono proprio quelli diretti dal Maestro in persona. Bisogna penetrare nel nucleo profondo della sua scrittura, individuando nel livello veramente essenziale: per poi tradirlo … Come ha fatto il puro genio del cinema Stanley Kubrick in Shining (USA, ‘80); o Rob Reiner in Stand by me/Ricordo di un’estate (USA, ‘86): tutti e due stupendamente tratti da romanzi di King. Anzi, quest’ultimo, da Valerio Caprara, è stato giustamente accostato al presente It (USA, ‘17).

Il suo regista, l’argentino Andrés Muschietti, ormai operante a Hollywood, insieme alla sorella Barbara produttrice del film, si è avvalso di un gruppo di sceneggiatori tra cui spiccano Gary Dauberman, con una forte propensione per pellicole horror, tra cui i due Annabelle, e Cary Fukunaga, che oltre ad essere sceneggiatore della fortunata e riuscita Tv Series True Dedective, ne è stato anche regista.

Le domande sono: come hanno affrontato la sostanza narrativa e tematica del libro? E quale parte hanno trasposto in pellicola? Secondo me, gli sceneggiatori hanno rispettato i contenuti psicologico-sociali essenziali dei sette protagonisti, dando spazio anche, ad esempio, ai loro persecutori, alle dialettiche familiari, ecc. Ovvero come questo piccolo paesotto sia mostruosamente normale: fa parte della conformata realtà del vivere comunitario, da tutti accettata come una quasi religiosa fatalità, che i bambini scompaiano. A nessuno interessa realmente il loro destino: Derry odia i bambini e gli adolescenti. Ne fa carne sacrificale. Questo è il vero horror.

È qui che alligna il Mostro: il sistema reticolare di fogne è la metafora del vivere civile dello sprofondo Usa”, quell’immensa periferia urbana lontana dalla grandi città, di cui Derry è un simbolo e una sintesi. Hinterland-tipo allocata sia sulla linea della Rusty Belt, la “striscia” degli Stati della recessione industriale Usa, che della Corn Belt, quella agroalimentare, la stessa, per intenderci, che ha votato, e continuerebbe a farlo a tutt’oggi, nonostante le ripetute gaffe e marchiane incapacità politiche, Trump for President. Che fa del vivere con le armi offensive accanto, un rito fallico-pagano di primitiva sopravvivenza. Pennywise è l’incarnazione grottesca, qui in abiti raffinatamente rinascimentali, di questa dimensione diffusa.

Il mostro, però, è stato affrontato cinematograficamente in modi impeccabilmente horrorifici, anzi: supportato da una visionarietà adeguata, singolare, forte ed efficace. E credibile, dal punto di vista del genere narrativo. Questo doppio passo ben ritmato nelle sue componenti è la forza del film.

Il lavoro del montatore, Jason Ballantine, australiano, che ha lavorato in film horror, è stato egregio nel collegare i ritmi e i tempi delle scene di vita adolescenziale dei protagonisti col loro vivere quotidiano, più o meno immerso in ulteriori incubi domestici, con quelli della vicenda mainstream.

È stato comunque il regista che sapeva esattamente dove andare a parare, quale tipo di tensione doveva prevalere nell’intero film. Su quale tipo di spazio psicologico, abilmente costruito in ognuno, si doveva innescare la saga del terrore vero e proprio. Ovviamente gli imput erano letterari, ma l’utilizzarli in un modo o in un altro sono scelte di direzione, in cui tra l’altro non mancano spazi di simpatica comicità.

Pennywise ha una sua storia, accennata brevemente nel film; e perfino una sua distorta umanità. Ad esempio, realmente al dunque mostra le sue paure, ma soprattutto manifesta una sua malefica eleganza.

La scelta di vestire il protagonista con quegli abiti da personaggio dei quadri di Velasquez è stata geniale: Janie Bryant, la brava e talentosa costume designer, ha fatto un lavoro d’un raffinato assolutamente spiazzante, cui forse non è estranea l’intuizione dello sceneggiatore della bambola assassina Annabelle.

L’attore Viktor Skarsgard, figlio di Stellan, ne dà un’interpretazione di paffuta, ma crudele follia. Il film è stato acclamato come uno dei successi dell’anno: costato 35 mln di Usdollars – quindi un budget medio-basso – ne ha incassati quasi 10 volte tanto.

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