Cultura

La recensione, La tenerezza

di Francesco “Ciccio” Capozzi

A Napoli, Lorenzo, uno stanco avvocato della peggiore tradizione napoletana, anziano, vedovo, in rotta con i figli, instaura un rapporto profondo con una giovane sciroccata, se pur vitale, vicina di casa e suo marito. Ma il dramma colpisce la famigliola.

Maria Grazia Saccà e Ornella Bernabei, lungimiranti e capaci producer della Pepito Produzioni, rilevarono i diritti del romanzo La tentazione di essere felici, Longanesi Editore, di Lorenzo Marone, ex avvocato salernitano (ma attivo a Napoli), datosi con successo alla scrittura. Proposto al regista Gianni Amelio «… perché probabilmente nelle sue corde», come lui stesso ha dichiarato, è stato da lui trasformato in film (ITA, ‘17).

Amelio insieme ad Alberto Taraglio, poco prolifico regista ma alacre sceneggiatore per la tv e da tempo collaboratore della Pepito, l’ha pure sceneggiato. E ha trasformato La tenerezza in un’opera estremamente personale e addirittura intima.

Ha iniziato con l’uso di una canzone greca, Mia Fora Thymamai di Arleta, degli anni ‘60-’70, che dà il senso di una ballata struggente, dagli echi individuali molto profondi. Amelio spesso “è partito”, per creare le sue atmosfere psicologico-narrative, da una semisconosciuta ma sempre molto appropriata canzone. Ha inoltre composto un casting da lui personalmente curato.

Il protagonista è il navigato, colto e maturo attore Renato Carpentieri. Napoletano, ha già lavorato felicemente con Amelio. Proveniente dal teatro, ha conosciuto proprio con lui il successo cinematografico.

Accanto a Carpentieri c’è Elio Germano, nel ruolo del marito della vicina e padre dei due bambini: la sua sofferenza esistenziale è resa con un’incalzante climax che si manifesta attraverso gesti di drammaticità furiosamente compressa. Il cui culmine è il ritrovamento fortuito di quell’amato giocattolo della sua infanzia. Cosa che invece di dargli pace, lo porta da un confronto distruttivo e ultimo con se stesso.

Le coprotagoniste femminili sono Vittoria Mezzogiorno, la figliacompassionevole, e Micaela Ramazzotti, tenera e svanita, ma attenta e fine.

Anche molto azzeccata e intelligente è stata la scelta di Maria Nazionale, cantante di grande spessore musicaleche si è già rivelata attrice di sicuro piglio. La sua parte di ex amante, lasciata senza un perché dal già fedifrago Lorenzo, è un mix di forza popolare e romanticismo, dignità e consapevolezza femminile molto energica. L’averla scelta rivela un senso della direzione attoriale che è un po’ una delle caratteristiche più positive di Amelio.

Come anche molto significativa è la scelta del giovane Arturo Muselli nell’ambiguo, ma sofferto ruolo del figlio all’apparenza tanto distaccato e disinvolto da essere un “rubacchiotto”, sempre intento a frugare nella casa del padre, per portare via soldi e oggetti che possano essergli utili, tracce e prede di un amore di cui avverte la mancanza, e che chiede soldi, come segno di affetto e solidarietà all’amorevole sorella. In lui comunque albergano una rabbia e un dolore repressi che ogni tanto si manifestano, come taglienti lame di luce abbagliante. Questa difficile ambiguità è sottilmente tenuta in bilico, chiaramente su sollecitazione del regista, dall’attore, ormai di una professionalità e sicurezza di livello sofisticato.

Ma allora da dove scaturisce la tenerezza del titolo, in quest’universo narrativo di infelicità e abbandoni? C’è una bella citazione di in poeta arabo, resa nel sottofinale dalla Mezzogiorno, che però non è del libro, ma degli sceneggiatori, che più o meno suona così: «La felicità non è un posto dove andare, ma è un porsi che è da ricercare nel nostro passato, nella nostra memoria, dentro di noi». Credo che sia una chiave del film.

Questo scarrupato, anziano avvocato ricorda il Giorgio Albertazzi in cerca di redenzione di L’avvocato De Gregorio di Pasquale Squitieri (‘03), sottovalutato regista da poco scomparso.

Il nostro Lorenzo si aggira, si nasconde e si vuole come perdere tra le strade del centro storico di Napoli, sempre brulicanti di vita e di rumori, che sembrano ottundere, nella loro forsennata vitalità irriconducibile alle convenzioni del vivere civile e ordinato, la profonda infelicità del suo vivere. Il suo è un trascinarsi tra contraddizioni irrisolte, ma la speranza che aveva posto nella salvezza della sua vicina, stando affettuosamente al suo capezzale pur non avendone alcun titolo, vorrebbe essere come un riscatto rispetto all’insolvenza dei suoi apporti affettivi.

L’unica a capirlo con assoluta chiarezza è la figlia. E il loro gesto semplice di avvicinamento del finale apre la strada a quella tenerezza – “incorniciata” splendidamente dalle note musicali toccanti della canzone greca – che è l’unica dimensione in cui cercare il perdono reciproco, che vuole essere una speranza di vita e di affetti condivisi.

La semplicità e la sincerità di questo percorso s’impongono alla nostra attenzione e partecipazione emotiva e fanno da tara anche ad alcuni compiacimenti verbali che rallentano, anche se aiutano a chiarire alcuni passaggi del film. Che resta un’opera riuscita.

Aiutano non poco gli apporti tecnico-artistici, oltre alle qualità attoriali descritte: quello del bravissimo Luca Bigazzi, nella direzione della foto, è il più significativo. Bigazzi ha “spento” le cromaticità delle folle in moto ma le ha rese, per paradosso, ancora più lussureggianti di vita e di colore, perché le ha sottolineate, e ci vengono comunicate, in un sguardo sempre collettivo e complessivo attento, mosso e pieno di vita. Perfettamente in linea, come in una asimmetrica sinfonia, coll’accorto e puntuale montaggio della “veterana” Simona Paggi: insieme hanno creato davvero una città che “è mille culure” (Pino Daniele).

La scelta del palazzo signorile ai Banchi Nuovi, nella su erta difficoltà di accesso, ha un forte ed evidente valore metaforico: oltre che in casa, il lavoro dello scenografo Giancarlo Basili, insieme a quello del costumista, il famoso Maurizio Millenotti, danno gli adeguati corpi e profondità alle estensioni materiali tra cui si inerpicano e confliggono, in interni ed esterni, i vissuti dei protagonisti.

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