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La recensione, Manchester by the sea

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Lee, un portiere tuttofare di Boston, allergico al contatto umano e collerico, in realtà ha un profondo vuoto interiore da lutto. Muore il fratello, ritorna al paese da cui era scappato: tra le ultime volontà sue, c’è che diventi il tutore del nipote sedicenne.

Questo bel film (USA, ‘16), che tra l’altro sta avendo un ampio e meritato quanto inaspettato successo di pubblico, è uno di quei titoli che mette in cortocircuito la stessa ideologia di Hollywood e sfata uno dei suoi più vieti luoghi comuni: il tipo di finale cui siamo abituati.

Pur senza fare spoileraggio, affermo che esso è in linea con le premesse date fin dall’inizio della narrazione. Epperò questo è il miracolo. Il film si dipana per più di due ore (2h e 15m), e non abbiamo alcun senso né di noia né di ripetitività.

Questo grazie ad una sceneggiatura costruita in modo eccezionale, non a caso in nomination agli Oscar ’17, opera dello stesso regista Kenneth Lonergan, che peraltro “nasce” come autore teatrale e sceneggiatore: sua è stata quella di Gangs of New York (‘02) di Martin Scorsese.

La fabula  di Manchester by the sea non segue lo sviluppo lineare degli avvenimenti centrali: ce li dà in continui ed efficaci flash back, partendo dalle ripercussioni sull’animo del protagonista, nel quale assistiamo al prodursi del violento conflitto autodistruttivo. In cui sopravvive, pur se con dolorose difficoltà, con dignità e forza. Questo precario e fragile equilibrio è reso dall’attore Casey Affleck (fratello minore del più noto Ben), con un’intensa flagranza di dolore, ma sempre sotto le righe, con numerosissime sfumature sia gestuali che di dialogo. In cui la cifra più significativa é il silenzio, il tacersi ma “comportarsi” in un certo modo. Soprattutto quando si confronta con gli altri.

Così assistiamo, proprio all’inizio del film, al vario interfacciarsi di Lee con gli inquilini degli stabili in cui lavorava: sono tanti piccoli siparietti succulenti, perché vari e vivi, che caratterizzano, con sintetica efficacia di dialoghi, la fauna dei cittadini e delle nevrosi urbane (qui si vede la maestria squisitamente teatrale dello sceneggiatore). Cui il portiere risponde con olimpica, ma controllata freddezza, che rimanda, di riflesso, alle sue sofferenze interiori.

Molto rilevante, e da segnalare, è la rispondenza rispetto al personaggio del doppiatore italiano: Massimiliano Alto, esperto e dotato, e direttore di doppiaggio, che assume toni di voce distaccati, di chi vive come prestato a quel tipo di esistenza cui si sente estraneo.

Toni che sono altresì caratterizzati da venature di lingua pronunciata aderenti alla sua provenienza sociale, da blue collar, cioè classe operaia americana. Anzi, questa dipintura d’ambiente sociale collettiva, in cui è immersa la vicenda, è omogenea e unitaria, attraverso piccoli, ma significativi dettagli. Ed è un altro punto di forza della sceneggiatura. Ma questa caratterizzazione sociale attenta, è parte integrante della differenza tra due mondi: quello di Boston, nella cui desertica – nel senso di grigia e anonima – collettività si era venuto a rintanare, e la cittadina di Manchester By the Sea, che dà titolo al film. Di città col nome di Manchester, in USA, ce ne stanno una quantità: ecco perché quel by the sea, che sarebbe come la nostra indicazione toponima differenziante “a mare”.

Eppure questa così pomposa indicazione rimanda, per contrasto, alla semplicità, però divenuta ora, nel ricordo, così dolorosa, di una dimensione di vita collettiva accettata e vissuta, retrospettivamente, con naturale adesione. Diventa una misura di felicità perduta. Perché rinvia sempre alla memoria ineludibile di quanto è avvenuto: per lui, dentro di sé. Non c’è né perdono né oblio.

La differenza cromatica non potrebbe essere più drammaturgicamente evidente: mentre nella realtà metropolitana prevalgono i grigi, sul mare aperto c’è il senso dello spalancarsi della profondità, come dell’anima, di fronte a spazi aperti, che danno a Lee un senso di vertigine che diventa insostenibile. Si badi bene: la differenza non è tra un grigio e un “semplice” scoppio di colori forti, che sarebbe stato banale e fuorviante, ma è molto più sottile ed elaborata. Sono delle tonalità cromatiche “giocate” e utilizzate su spazi aperti, in cui prevalgono sottotinte e sfumature, che rimandano a colori decisi, ma non forti.

L’apporto del direttore della fotografia Jody Lee Lipes è stato di pregio, di alta qualità artistica: oltre che pittoricamente assai ricercato, molto funzionale alle esigenze della regia. Che in tal modo connota non solo gli spazi fisici, ma l’uso della dimensione psicologica e conflittuale degli stessi.

E proprio in questi spazi, Lee rincontra la ex moglie. Tra i due c’è un confronto che è il punto più alto, l’acme drammatico ed emotivo del film. È di un’intensità che fa star male: traboccante di affetto, dolore, compassione, memoria e amore perdurante, intrisa del tentativo di superare con forza e maturità, soprattutto da parte di lei, un dolore indicibile.

L’attrice Michelle Williams, l’ex moglie, dà un’interpretazione fortissima per tensione e complessità, ricchezza e perfino contraddittorietà di sentimenti: anche lei in nomination agli Oscar.

E il trovarsi col nipote è anch’esso ricco di sfumature. E, grazie alla freschezza e simpatia di questo adolescente, il giovane e promettente – pure in nomination – Lukas Edges, che vive con onestà e vitale confusione la sua vita, c’è anche spazio per notazioni umoristiche. Che peraltro riescono a non stonare: ne sono un felice e intelligente contrappunto.

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