Cultura

La recensione, Moonlight

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Liberty City è il quartiere degradato di Miami dove si svolge la vicenda di Chiron in tre capitoli diversi del film e della sua vita: bambino, adolescente e uomo.

Barry Jenkins è il trentasettenne regista e sceneggiatore di Moonlight (USA, ‘16) che dopo aver girato numerosi corti e lavorato in tv series  è alla sua seconda opera.

Il film è  tratto da un testo teatrale preesistente di Tarrel Alvin McCraney, Al tramonto tutti i Neri sono blu. Titolo che è richiamato, in un momento clou del film, in una bella battuta del dialogo. Sia l’autore del testo di partenza che del film non solo sono di Miami e dello stesso quartiere citato nel film ma hanno avuto esperienze familiari molto simili: figli di madri single e tossiche, alle prese con l’AIDS. Ma hanno saputo uscirne.

Moonlight, per quanto sia molto piaciuto, non ha avuto riscontri critici unanimi. Addirittura c’è chi afferma, sottovoce, che ha vinto come Miglior Film (la statuetta più ambita) più per meriti “politici” che artistici: è come se Hollywood avesse “votato” contro la politica del Presidente Trump, sia in ordine all’accoglienza che a quella sull’’integrazione. Tra l’altro, uno degli Oscar, quello di Attore non protagonista, è stato attribuito a Mahershala Alì, che ha il ruolo dello spacciatore che diventa mentore di Chiron bambino, musulmano dichiarato: ed è la prima volta che ciò capita agli Oscar. A mio avviso, la chiave di volta interpretativa e che caratterizza originalmente il film, ce la dà il regista: «È  un film poetico, intimo, tenero e sensibile, ma anche violento e crudele (…)».

Ritengo che ci sia piena rispondenza tra queste parole e la resa filmica. Parole che peraltro Jenkins riferiva specificamente alle motivazioni delle scelte e modalità del commento musicale, anch’esso molto originali. Ma è tutto l’insieme della conduzione che rileva il polso dell’autore che è in possesso di un suo stile. Fin dall’inizio noi assistiamo al vivere di Piccolo (così è chiamato Chiron in questa fase), che si barcamena tra bullismo subito e la madre tossica e sola, ma, a suo modo, e in modalità non lineari, amorevole e premurosa. Il suo muoversi tra le prime esperienze anche dolorose della vita, gli fa assumere un approccio chiuso, ma attento.

Chiron è un bambino che ha una sua personalità che gli altri definiscono “frocia”, ma si vive con grande forza, dignità e sensibilità nonostante le fragilità. Il suo incontro con Juan, uno spacciatore e la sua fidanzata Thèrese, ha la capacità di fargli vedere l’amore: che non chiede, ma cui si affida. La sequenza del suo imparare a nuotare sotto la sua guida è assai sintomatica, oltre che bellissima e riuscita.

Le riprese sono molto ravvicinate, da “cinema di realtà”, ma rivelano il senso di una composizione complessiva attenta e armonica, in grado di suggerirci comunque sensazioni e sentimenti contrastati. Come lo sono quelli relativi all’esistenza di questo bambino e dei personaggi, non di facile e scontata etichettatura, che gli girano attorno: la madre, Juan, Thérese.

La parte della sua adolescenza, in cui è chiamato Chiron – il che ci suggerisce che è forse l’unica in cui è davvero sé stesso – è quella attraversata da maggior dolore ma anche dalla più intensa scoperta di sé. Qui conosce Kevin, e decide di reagire al bullismo, assumendo però come proprie le forme della violenza, che fino a quel momento non gli erano appartenute.

Qui abbiamo la miscela tra la componente della disperazione, la speranza che viene dalla scoperta vera di sé, e dell’autodistruttività incombente, che è dell’ambiente sia fisico che familiare circostante. Ma il tutto è tenuto miracolosamente, musicalmente compresente: sono tutti elementi che noi distinguiamo ma che si “avvitano” l’uno sull’altro con fluidità, sicurezza formale e chiarezza delle motivazioni e passaggi.

Solo chi realmente è passato per questo tipo di esperienza e vi ha riflettuto con rigore e sensibilità può dare contezza dell’analisi di percorsi così contraddittori, con tale finezza e precisione.

Ma i nodi si chiariscono nella terza parte in cui è diventato un omaccione grosso e minaccioso, il cui nome, e anche del capitolo, era Black, e fa lo spacciatore, dopo essere stato in riformatorio. Rincontra Kevin, e su questo incontro, che è la parte conclusiva e la più importante del film, abbiamo un ritorno a ciò che era e sarebbe potuto diventare: in un qualche modo si riapre alla speranza. È quella che più risente della matrice teatrale del film, risolta comunque non solo con una recitazione più concentrata ed essenziale, ma con un gioco di pregevole montaggio interno e di organizzazione degli spazi.

È un dire che richiama e fa rivivere alla memoria il rapporto tra passato e presente, piuttosto che dichiarare. Sono espressi accenni, tocchi di grande delicatezza: ma danno “aria” al nostro sentire e a quello dei personaggi.

Le varie fasi della vita di Chiron sono tre attori diversi. Ma il ruolo più difficile, doveva rappresentare l’assoluta negazione/ascondimento, ma non la scomparsa o il superamento, delle incertezze di genere e di sensibilità che si portava da bambino e da adolescente, se voleva sopravvivere, in quel mondo disumano delle povertà disperate dove vivevano lui e la madre. Dove o si era vittime o persecutori. E anche il personaggio di Kevin è molto ben interpretato: sia dall’attore che lo fa nell’adolescenza, che da quello dell’età adulta (André Holland): è l’incontro con lui, sia prima che nella terza parte, lo spartiacque della formazione di Chiron, come anche della narrazione.

Molto stimolanti e sorprendenti le scelte musicali: dal rap alla musica barocca, con un senso forte della narrazione. Insieme al regista, vasto conoscitore dell’hip hop, il compositore Nicholas Britell, ha sperimentato con successo e intelligenza nuove vie di comunicazioni sonoro-musicali.

Da sottolineare il coraggio e la lungimiranza dei produttori: Brad Pitt, con la sua Plan B e Megan Ellison, intelligente, colta e significativa, per quanto minoritaria presenza di Hollywood: tra l’altro, il film costato “solo” sui 5mln di dollari, va per il centinaio; e non c’è dubbio che l’Oscar farà da ulteriore volàno.

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