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La recensione, Soldado

di Ciccio Capozzi

Questa volta per scatenare la guerra tra i vari cartelli messicani della droga, unico mezzo per fermarli, i Servizi americani ordiscono il rapimento della figlioletta del capo di uno dei più potenti, facendolo attribuire ai concorrenti, scatenando una guerra tra loro. Ma le cose non vanno come dovevano andare…. È il sequel del fortunato Sicario (‘15) diretto da Denis Villeneuve: film che lanciò uno sguardo allucinato  e del tutto disincantato nella sua consapevolezza  sull’impossibilità e semimpotenza nel contrastare i narcos coi mezzi legali “normali” e di ordinaria polizia.

In Soldado (USA, ‘18) la drammaticità e la complessità della lotta è ancora più accentuata: i cartelli si stanno concentrando sulla merce più a buon mercato sulla piazza: gli umani; che porta profitti ancora più della droga. «Non la devi coltivare. Ti arriva da sola, già bell’e pronta. La devi solo far camminare», come dice cinicamente uno dei Sicarios del trasporto dei migranti clandestini tra Messico e Usa. E in cui s’intrufolano i terroristi kamikaze. Ecco perché i politici -che tutto possono sopportare, compresi migliaia di clandestini, anche minori, imprigionati, fuorché dei terroristi sul loro territorio-, decidono di arrivare a quell’ideona di fiaccare i cartelli con una “bella” guerra intestina.

La regia è stata offerta all’italiano Stefano Sollima, il regista di Gomorra. La serie, Suburra, ecc.  Si badi: i producer hanno cercato lui, non viceversa. Ritengo che questo sia stato un grande complimento al regista, e all’intero cinema italiano… E la scelta è stata azzeccata e vincente. Il nostro Sollima ha perfettamente inteso la ricchezza della bella sceneggiatura del film, di Taylor Sheridan, lo stesso del precedente, e si è messo sulla stessa lunghezza d’onda.

Soldado è stato considerato un western. Vero. Ma ha in più diversi elementi che lo fanno diventare un western politico: in un qualche modo è presente la stessa apertura mentale che rendeva i western all’italiana dei 70 così caratteristici e peculiari. In particolare, quelli del grande Sergio Sollima, padre di Stefano: mi riferisco alla Trilogia di Cuchillo, con Tomas Milian, e alla lettura in chiave epica e antimperialista del kolossal tv Sandokan, tratto da Emilio Salgari. Stefano ha esattamente colto la complessità politica e sociale della lotta ai Narcos e di come essi facciano parte dello stesso establishment: come in un ben combinato minuetto di guardie e ladri, di gatto e topo, ecc. In cui ognuno interpreta un ruolo, e poi se lo scambia, lo sospende e se lo vende col suo soidisant nemico, come e quando gli serve: soprattutto in relazione ai politici, di qua e di là del confine, che sembrano essere i veri burattinai. Ovviamente insieme ai capi dei cartelli. Il tutto orchestrato in una sinfonia d’azione, di indubbio fascino visivo; dall’azione incalzante e sempre  logicamente connessa alla complessità dei temi in analisi. Mai gratuita.

Il padroneggiamento delle situazioni e delle trasformazioni in esse contemplate dei personaggi, gli viene dal tipo di approccio utilizzato in Gomorra, dove i dettagli di umanizzazione e di differenziazione dei personaggi, sempre presenti e attenti, sono perfettamente inclusi nelle azioni, negli scenari e nei tempi che si compongono attorno a loro, anche i più serrati e d’impatto. In questo, l’avvalersi di montatori eccellenti, come qui Matthew Newman, gli è essenziale: grazie a loro, Sollima, riesce a mettere piccoli, veloci e leggeri, ma fondamentali, tocchi di caratterizzazione perfino psicologica e  comportamentale. Come nel caso del rapporto, qui, tra la bambina, assai ben individualizzata, e il burbero, micidiale ma umano Benicio Del Toro; o tra Josh Brolin a distanza col suo sodale Del Toro, nonostante i suoi terrificanti e vigliacchi committenti.

In Gomorra e in Suburra, la fotografia e il montaggio gli sono serviti a delineare un angosciante ambiente urbano crepuscolare e sempre pronto ad essere inghiottito dalle tenebre; qui, al contrario, è all’aperto sole e negli spazi senza fine dei deserti, che, come dei serpenti, si celano le insidie.  Il direttore della foto, il bravo e premiato, Dariusz Wolsky, ha creativamente collaborato col regista: non è uno spazio epico, quel deserto da costoro delineato per l’azione, ma è pieno di labirinti e macchie. Dove la sua descrizione, mai lirica o umanizzata (come ad esempio in Mad Max. Fury road), è solo un punto di perdizione e di annullamento: un nulla sospeso tra la spietata crudeltà affaristica dei killer e quella noncurante e cinica dei politici.

Assai importante è la musica. Come i Mokadelic hanno elaborato quel refrain sonoro, di grande impatto, ma anche efficacia narrativa vera e propria, che amplifica, lega e prepara gli sconvolgimenti di Gomorra, qui la brava musicista e solista islandese Hildur Gudnadòttir, scelta evidentemente per le stesse motivazioni e finalità dal regista, ha elaborato una base ritmica essenziale, che accompagna come un basso continuo l’intero film. È di un effetto straniante e ipnotico allo stesso tempo,  molto intenso, che resta impresso nella memoria e nella fantasia.

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