Cultura

La recensione, Split

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Tre ragazze vengono rapite da uno psicopatico in cura da una psichiatra per Disturbo da Personalità Multipla: in lui coabitano ben 23 personalità. Ma è in arrivo la 24esima, la più pericolosa e sfrenata di tutte…

L’accoppiata M. Night Shyamalan, anzi: Manoy Nelliyattu Shyamalan, regista, sceneggiatore e produttore nato in India, ma attivo a Hollywood,e il sulfureo e geniale produttore americano Jason Blum, per la seconda volta, ha funzionato alla grande.

Insieme hanno realizzato il precedente The visit (‘15), costato la “miseria” (per gli standard americani) di 5mln di dollari e che ne ha incassato quasi un centinaio, in Usa e in giro per il mondo. Era un bel film che ha rinfrancato e ridato smalto al regista, dopo la mezza botta di After Earth (‘13), prodotto con larghi mezzi da Will Smith e famiglia, che sembrava essere l’epitaffio non glorioso di un autore che, con lo splendido Il Sesto senso (‘99) apparve il nuovo maestro del cinema horror.

Il film Split (USA,’16), sempre appartenente al genere horror, alle cui leggi fondamentali il regista non si sottrae, trae la sua forza dalla qualità, la coerenza e la profondità delle riflessioni “collaterali” che illustrano le motivazione del fare dei protagonisti, su cui vengono instradati e messi in moto i tradizionali meccanismi “acchiappattenzione”, come il suspense, la sospensione di montaggio, l’uso drammatico della musica e drammaturgico degli effetti speciali, sia materiali che visuali ecc.

Qui è il protagonista Dennis e i suoi multipli che sono al centro dell’attenzione: in realtà tutti e ventitré sono personalità suggerite e scaturite dall’Es di quella iniziale del bambino (Edwig) per proteggerlo dalle violenze domestiche di cui era oggetto da parte della madre. Gli abusi hanno così traumatizzato la persona che è stata eretta una multipla cornice di difesa attorno, per permettergli di crescere ed avere una parvenza, per quanto sfaccettata e disturbata, di vita normale.

Ed è la più “artistica” delle personalità, fashion designer, che coltiva i rapporti terapeutici con la dottoressa Fletcher, l’attrice Betty Buckley, una presenza e una “faccia” da caratterista, per quanto non molto nota, ma sempre, come qui, validamente e sinteticamente esemplificativa di ciò che deve rappresentare, e che ha lavorato molto in tv. La psichiatra a suo modo coglie la complessa, pericolosa e devastante multipolarità del coro. Soprattutto, ne coglie l’intima, assoluta sofferenza. Di come cioè tutta questa struttura sia stata messa su per proteggere il bambino che più di tutti ha sofferto.

Questo tratto riflessivo accompagna e non scompagina l’assetto narrativo. Anzi ne amplifica la valenza, perché permette di dare spazio alla costruzione di un senso compiuto alla coabitazione, in cui ognuna ha una sua delineata personalità e umanità, ma che si armonizza perfettamente ad incastro con le restanti. Noi ne vediamo solo alcune, ma sono attentamente diversificate, senza cadere nel clownesco o nel facile splatter.

È inutile dire che il tutto si regge sulla bravura dell’attore protagonista, James McAvoy: al contrario di quanto ci sarebbe potuto aspettare, ha realizzato una prestazione tutta “in togliere”: ovvero ha caratterizzato le differenze tra le varie e compresenti personalità, concentrandosi sul corpo interiore della differenza, poco cedendo all’esteriorità. Un esempio: c’è pure una donna tra le 23 presenze; ma è messa in scena senza alcun make-up, solo con dei gesti femminili, “un porgere” elegante da donna: nulla di eclatante o sopra le righe. Ma ciò proprio la rende mostruosamente convincente e sconcertante.

Un altro aspetto interessante è l’attenzione che il regista-sceneggiatore ha per le vittime. In particolare per Casey, l’attrice Anya Taylor-Joy. Dal volto di non banale né eclatante bellezza, benché giovane, la Taylor-Joy ha avuto esperienza di cinema e tv. Lo sviluppo del suo personaggio fa comprendere che, manifestandosi un’adolescente con forti resistenze alla socializzazione, è anch’essa in un qualche modo disturbata, a causa probabilmente del fatto che è stata oggetto di sevizie.

Grazie ai flash-back, che “tagliano” la narrazione in modi efficaci e emotivamente incisivi (da segnalare il montaggio di Luke Franco Ciarrocchi), noi scopriamo il suo passato, che riesce ad innestarsi intelligentemente con lo stesso sviluppo della trama.

Nel film sono presenti numerosi aspetti narrativi, cui si cerca di dare una cornice di plausibilità perfino scientifica: come si vede negli interventi della psichiatra sulle patologie da dissociazione e personalità multiple.

Bisogna dire che la sceneggiatura accompagna, utilizza e armonizza tutti questi elementi, non perdendo mai il punto di vista aggregante, che è quello, diciamo così, complessivo della personalità multipla, e dei conflitti che essa suscita: ciò che interessa allo spettatore.

Conflitti preparatori alla venuta della più scatenata, violenta e sanguinaria delle personalità: La Bestia. Il suo manifestarsi ricorda l’Hulk marvelliano. Ma pure questa entry è stata preannunziata nei modi narrativi dovuti: perciò anch’essa si ingloba agevolmente, e lo chiude convincentemente, in questo insieme fantasmagorico.

Girato interamente a Filadelfia, la città del regista, assume una tonalità non solo di atmosfera, ma narrativa da provincia profonda, molto particolare e personale, grazie anche alla foto di Mike Giulakis.

Da rilevare l’importanza del produttore “mago” Jason Blum, che vi ha investito 10 mln di dollari: dopo che il film è stato ultimato, ha avuto delle riprese aggiuntive (dei reshoots), perché evidentemente vi erano delle criticità. Il che significa aggravio di costi: ma il produttore in questa decisione manifesta il suo ruolo non solo economico ma artistico. E ciò ha funzionato, come si vede dagli incassi nel mondo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *