Cultura

La recensione, The legend of Tarzan

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Seconda metà dell’800: John Clayton III, Lord Greystoke è il Tarzan di qualche decennio prima, rientrato dalle jungle africane, nei suoi panni nobiliari. Rimessosi in campo per una missione umanitaria, è, in realtà, vittima di una trappola.

Creato letterariamente da Edgar Rice Burroughs nel 1912, Tarzan è uno dei personaggi più longevi e affascinanti dell’immaginario cinematografico: in pellicola per la prima volta nel 1920, impersonato da un fustone dell’epoca, Elmo Lincoln, che però non appariva in costumino da bagno, ha avuto la sua personificazione più plastica nel campione di nuoto Johnny Weissmuller, che dal ‘32 lo ha portato – perizoma compreso … – 12 volte sullo schermo.

Sono più di 50 le edizioni filmiche che hanno visto questo personaggio, tra cui cartoons. Senza contare alcune variazioni al femminile e più d’una comica: delle quali la più irriverente fu il cartone Tarzoon la vergogna della jungla di Picha&Szluzinger (FRA-BEL, ‘75); e la più geniale quella indimenticabile di Totò nel ‘51 Tototarzan.

In realtà, dopo l’invasione degli eroi dei fumetti, la figura di Tarzan sembrava in calo: e anche l’edizione tedesca in digital animation del ‘13, fu un relativo insuccesso. Assimilata ad un dignitoso cinema di serie b “per famiglie”, come diceva John Weissmuller, ha avuto una sua compiuta traiettoria storica.

Un tentativo serio di darne una versione più corposa produttivamente, oltre che di stile e di idee, fu fatta nell’84 con Christopher Lambert, diretto da Hugh Hudson. Per quanto il risultato fosse stato complessivamente più che dignitoso, non ha dato seguiti.

Eppure The legend of Tarzan (USA, ‘16) è a quest’ultimo che si rifà, benché 30 anni dopo: divenendone una sorta di sequel-reboot. Sequel perché tarzan, già identificato in quel film come Lord Greystoke, ora ne veste i panni e il ruolo sociale, con sua moglie Jane accanto. Re-boot, che vuol dire “ripresa daccapo”, perché il film dell’84 terminava con il Lord che ritornava nella jungla per restarvi come Tarzan.

Inoltre i termini essenziali della sua vicenda (morte dei genitori, adozione di lui bambino da una mamma-scimmia, sopravvivenza ecc.), nel film del ‘16, vengono riproposti, in flashback, in modi sintetici. Però con alcune significative differenze. Il regista David Yates, talentuoso ed esperto – sono suoi ben quattro Harry Potter – e i suoi sceneggiatori, il giovane Adam Cozad ed il navigato Craig Brewer, hanno molto sottolineato l’aspetto psicologico dell’insieme dei rapporti e vicende di questo Tarzan. Perfino in quelli con la madre adottiva, grazie alle espressive sfumature facciali, rese possibili dalla CGI (Computer GeneratedImagery), prevale l’affettività reciproca, resa – ed è questa la novità – con una forma di malinconia della memoria.

E più in generale, Tarzan non fa che “interrogarsi” e darsi delle ragioni al suo operare: riflette su sé stesso, quand’era il ribelle Tarzan, e sulla dicotomia e la distanza non solo fisica ma valoriale, dei due mondi e civiltà cui appartiene. Lo fa, beninteso, senza sproloqui, ma immergendosi nell’azione. Come nel rapporto col Capo Mbonga (l’attore Djimon Hounsou), del quale anni prima aveva soppresso il figlio.

Tarzan maturo è portato a riconsiderare quel gesto in una più corretta prospettiva, sia d’età, avendo cercato quand’era giovane, a caldo, la vendetta per avere quello ucciso la gorilla madre, che aderendo alle nuove esigenze politiche dell’oggi (la lotta agli schiavisti), e a chiederne perdono, disinnescando il senso della sterile vendetta.

È un Tarzan che non vive passivamente questo suo singolare status doppio, e cerca di gestirlo. In questa chiave è molto importante il ruolo della sua ombra, il soldato Usa, ora agente dei sevizi di quel Paese, Samuel L. Jackson, che lo accompagna nell’impresa. A parte qualche riuscito e veloce siparietto comico, quella di Jackson è una funzione di “autocoscienza esterna”: una specie di specchio, che aiuta Tarzana meglio comprendersi.

D’altra parte nemmeno l’agente nero è un santarello: lotta contro la piaga inumana dello schiavismo che nei secoli, praticato dai mercanti arabi e poi bianchi -portoghesi, francesi, inglesi ecc. – ha completamente impoverito, distrutto e dissanguato l’Africa, e che nell’800 i nuovi colonialisti come Leopoldo II di Belgio (storicamente documentato), stanno utilizzando in Congo. Ma è stato un soldato che ha ucciso molti indiani. E per lui questa collaborazione con Tarzan-Greystoke è una forma di riscatto.

Il film parla di Leopoldo II, questo singolare sovrano, sottolineandone l’indole avida e affaristica: ma è tutto vero. Il Congo era “suo” possedimento personale dal 1885, poi graziosamente ceduto, ma solo in eredità post mortem alla Stato belga. Finché è stato in vita le incalcolabili ricchezze depredate (avorio, diamanti, materie prime, con intere popolazioni sfruttate, uso cinico di schiavi e ruberie, sono finite tra le sue regali gote di cannibale insaziabile.

Il film fa perno su questa dialettica politica: ma il regista ha dichiarato che questa lettura è stato suo preciso intendimento tematico. Tutto ciò dà una forte cornice unitaria, in cui s’incasellano con effervescente e preciso dinamismo i vari personaggi.

E anche la cornice scenografica naturale è, oltre che strepitosamente bella in sé, molto viva: ci dà un’immagina assoluta dell’infinita potenza della natura incontaminata, quale si legge nei panorami di quei Paesi. Di fatto diventa uno strumento narrativo in più.

Si deve al production designer Stuart Craig il senso globale della visione; mentre ai due art designer DavidAllday e James Hambidge l’uso pulsante dei cromatismi che il direttore della foto Harry Braham ha elaborato. Insieme al montatore Mark Day, e ad altri numerosi collaboratori, hanno fatto dell’ambientazione scenografica qualcosa di affascinante, originale: non solo pittorico in sé.

Ma il regista, nei suoi Harry Potter, ai quali molti vi hanno collaborato, ha mostrato come inventare e costruire un ambiente drammatico fantastico, sospeso tra realtà e sogno (com’è quest’Africa: che ricorda quella da capolavoro di “Re Leone”), è opera di alto livello di regia e manifestazione di originalità autorale.

Anche il casting è perfetto: a parte quel bel bisteccone di Alexander Skarsgard (un metro e 90 di “veri” muscoli tartarugati…), che, tra l’altro,funziona sia fisicamente che come faccia, c’è la sorpresa dell’estrema vivacità di Jane. Non è per niente la bella damigella vittoriana: Margot Robbie, australiana, come una rozzona di mezzo alla strada sputa in faccia al cattivo, non è né accondiscendente, né svenevole. Il cattivo è Christoph Waltz: ormai è specializzato in questi ruoli, ma sempre con elegante, controllatissima, distaccata e perfida allure brechtiana.

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