Cultura

La recensione: The nice guys

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Los Angeles, 1977: Jackson (Russell Crowe)  grosso detective maturo dalla morale ondivago-retrattile incontra il collega più giovane Holland (Ryan Gosling), un po’ più etico ma dai tanti problemi, con in più una figlia tredicenne.

Insieme devono trovare Amanda, una sedicente attrice porno, figlia di un’importante funzionaria investigativa statale: ma chiunque ne ha confidenza scompare …

L’anima di questo film è il suo regista-sceneggiatore Shane Black. Nato come screenwriter di gran fama – è suo Arma letale, ‘87, nemmeno trentenne – ha avuto diversi alti e bassi.  Però nel 2005 aveva diretto, avendo avuto fiducia in lui, Robert Downey Jr, che allora era considerato inaffidabile per alcol e droghe, in Kiss kiss. Bang bang, uno strano e originale film d’azione. Che ebbe successo, ma soprattutto sdoganò Downey, che ritornò sulla scena da protagonista. E fu proprio Robert che lo fece chiamare a dirigere Iron Man 3 (’13), che grazie al tocco in sede di scrittura di Black, è considerato il migliore della serie: e comunque ha fatto incassi siderali.  Grazie alla spinta del successo, Black ha riproposto la sceneggiatura di The Nice Guys, da lui scritta nel 2001, ma che nessuno si filava. Questa sceneggiatura aveva avuto inoltre suscitato l’interesse di Russell Crowe e Bryan Gosling, che ne avevano opzionato preventivamente i ruoli da protagonisti. Cosa non insolita a Hollywood, perché lì le idee, comme ‘e cristiane, girano, girano … E tutti sanno tutto. Ed è nato questo film, prodotto da uno dei mogul più intelligenti e di lungo corso di Hollywood, Joel Silver.  The Nice Guys è da considerare, a mio avviso, una raffinata narrazione cultural-spettacolare e non solo un divertente film d’azione. in cui al centro è il rapporto e la scelta degli anni ‘70. Voglio dire: non è come in Quentin Tarantino dove c’è il citazionismo rabelaisianamente vorace, diretto, rivissuto e/o distorto in senso viscerale, paradossale ed empatico, come di chi vuole ridare vita a ciò che ha, voyeuristicamente, amato. È di chi, invece, si vuole distaccare dalla banalità del politicamente corretto o del fragoroso blockbuster – le cui logiche pure conosce e padroneggia – dei film odierni e riuscire così a trovare un’azione più “umana”. Azioni in cui i personaggi sono definiti con cura e sottigliezza, le situazioni sono logicamente correlate e i colpi di scena si susseguono in modo da legare l’attenzione dello spettatore, ma senza mai perdere un senso unitario.  E l’atmosfera visuale del periodo viene richiamata in modo indiretto: dal clima psicologico che si respira e dai valori che vengono presentati, più che dagli abiti, dal “parrucco” o dalle pubblicità cinematografiche e non che si vedono in giro.  Molto importanti, per questo, le musiche: fin dall’inizio si respirano le sonorità d’atmosfera che ricordano Shaft (‘71), le cui musiche epocalmente originali e riuscitissime furono del grande Isaac Hayes.  E su tutto ciò s’innesta, non moralisticamente, la riflessione sul sociale. Attenzione: è da dire che Black ha più volte dichiarato che l’intendimento problematico era se non marginale secondario: ciò che a lui interessavano erano le psicologie dei protagonisti. Però ha anche affermato che proprio dagli anni ‘70 cade in crisi la mitologia del sogno americano: ed è significativa a riguardo la frase di Russell Crowe in un’intervista: «Ecco quando l’America ha bruciato il suo futuro».

Ma per l’appunto questa è la forza ricostruttiva della narrazione di un’epoca, e non la semplice “ri-illustrazione” accademica di ritorno: il fatto di riuscire ad individuare una chiave interpretativa epocale che non sia “gridata” estemporaneamente e sterilmente, ma sia sottesa dallo svolgersi dei fatti, sia “all’interno” delle psicologie e dei dialoghi che accompagnano l’azione.

Honoré de Balzac, autore dell’800 francese, conservatore e poco propenso alle simpatie e agli slanci popolari, ha dato il più feroce e disincantato spaccato della società borghese del tempo perché da assoluto genio narratore ha “letto” cosa si agitava nel cuore profondo dell’epoca nel fare dei suoi personaggi.

Ed è ciò che ha mosso Black.  Il problema dell’inquinamento e della corruzione sono il dark side del sogno americano: e proprio Los Angeles e Detroit, col suo mantra di allora, oggi ritenuto clamorosamente ingannatore di «Ciò che va bene a Detroit va bene al Paese», col loro essere indissolubilmente legate, fa comprendere che allora il cinema e la comunicazione e i valori della finanza industriale erano parte integrante nella narrazione/realizzazione del sogno stesso.

E la incarnazione terribile di questo incubo è la pallida e spiritata (sempre bellissima) Kim Basinger.

Non è che non vi siano sbavature – ad esempio proprio la Basinger non è poi così ben sviluppata motivazionalmente – però il film ha un suo ritmo che scorre con decisa efficacia.

E sono proprio Crowe e Gosling, e la bambina, ben individualizzata, svelta e intelligente (Angourie Rice), a dare configurazione alle gag e alle battute sia dirette che d’incontro con altri personaggi e situazioni.  I due attori protagonisti hanno raggiunto un’alchimia encomiabile: si danno presenza e ritmo di battute con spiritosa pregnanza e armonia. Sono contemporaneamente farseschi e ironici: ma hanno presenza duttile che li trasforma in protagonisti in scene d’azione.

Non mancano risvolti psicologici meno appariscenti, in grado di suggerire retroscena intimi meglio caratterizzanti.  Riuscito è il personaggio della fuggente Amelia: come l’Angelica ariostesca, dà un senso pieno alla sua assenza. L’attrice è Margareth Qualley, elegante, elusiva ma che sa essere anche forte presenza: già nota da una serie tv e figlia di Andie MacDowell, affascinante attrice e modella.

Da rilevare l’apporto al film della fotografia, il cui direttore è Philippe Rousselot: un maestro. Nato in Francia, dove si è fatto conoscere lavorando con registi colti, è entrato nel gotha dei grandi operatori del cinema americano. Qui il suo contributo è consistito nel circonfondere di luminosità “aperta”, tipica della città, quel senso di realismo fantastico degli anni ‘70 in cui tutto sembrava possibile con tutta l’apparenza di vivere in un clima di piena libertà. Ma era una libertà limitata, di corto respiro: pasolinianamente solo di consumare come tanti polli in batteria. Oppressi dallo smog: la cui presenza era “senza cause”. Quindi i colori risultano, pur vivi, come filtrati e opacizzati: questa speciale mistura rende l’atmosfera visuale del film unica e originale.

Pure di livello adeguato è il montaggio: curato da Joel Negron, esperto professionista, ha legato le scene d’azione in modi ineccepibili a quelle di gag senza far mai perdere ritmo e attenzione.

 

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