Cultura

La Recensione, The war- Il pianeta delle scimmie

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Alla ricerca delle Scimmie, oramai evolute, guidate da Caesar, vengono inviate delle forze militari umane allo scopo di annientarle. Le scimmie erano fuggite dopo lo scontro con Koba, un primate che voleva soppiantare gli umani, e si erano rifugiate nella più profonda foresta. Ma ora un altro esodo è necessario.

Ebbene si, ci siamo. Proprio sul finire di una stagione cinematografica non proprio esaltante, ecco che arriva, quasi inaspettato, il film (USA, ‘17) da ricordare. Il quasi-capolavoro.

Nasce come terzo episodio del reboot (che si ha tecnicamente quando si inizia daccapo e in modo diverso una conosciuta serie di film) della saga Il Pianeta delle Scimmie, iniziata nel 1968 di Franklin J. Schaffner, protagonista il magnetico Charlton Heston. Ebbe ben quattro sequel con diversi registi, di valore disomogeneo: gli ultimi due di J. Lee Thompson, il più recente del ’73. Inoltre, una Tv Series (‘74) di 14 episodi e una di cartoni animati nel ’76.

Ma l’impatto sull’immaginario popolare fu forte, perché poneva con evidenza profetica, partendo da un romanzo francese di fantascienza del ’63 di Pierre Boulle, il tema del pericolo della trasformazione irreversibile nel rapporto tra gli uomini e il nostro pianeta. La sostanziale riuscita cinematografica del primo ne rese efficace e di forte presa il senso della denuncia. Ciò avvenne ben al di là del genere Sci-Fiin cui sembrava relegato, al netto di talune ingenuità sia narrative che di effetti speciali e di make up.

Nel 2001 l’immaginifico Tim Burton fece il remake del primo: anche se non sprovvisto di nerbo e originalità concettuale, fu un mezzo flop sia finanziario che artistico.

Nel 2011, il regista Rupert Wyatt fu coinvolto dagli sceneggiatori e produttori Rick Jaffa e Amanda Silver. E proprio gli ultimi due secondo me sono gli ideatori della reviviscente saga, insieme sostenuti da Peter Chernin, un producer forte di Hollywood, diedero vita al primo reboot che si intitolò L’alba del pianeta delle scimmie.

Nel 2014 lo stesso team di produttori e sceneggiatori, con nuove entries, tra cui il nuovo regista, Matt Reeves, diedero vita al II episodio della neo saga, che si intitolò The dawn of the planet of the apes: il titolo voleva riecheggiare con finezza tematica, ovvero mettendo in risalto l’ineluttabilità dell’affermazione progressiva delle scimmie a detrimento degli umani, quelli della trilogia zombie di George A. Romero (1940-2017): The night…, The dawn… e The day of the dead. Ma in italiano si chiamò, con un contorto riferimento all’evoluzione, Apes Revolution: il pianeta delle scimmie. Tutti e due i film sono stati di buona fattura sia narrativa ed espressiva, risultando avvincenti e credibili; sia tematica, per la chiarezza e coerenza delle riflessioni messe in campo.

E sempre i due energici e visionari coniugi sceneggiatori-produttori (Jaffa & Silver), insieme all’altro sceneggiatore produttore Marc Bomback, già presente nel II titolo della nuova serie, e allo stesso regista Reeves, qui anche sceneggiatore, hanno impresso fin dall’inizio del film una vigorosa sterzata tematica: Caesar, in particolare, da solo e in relazione alla sua comunità simica sono i protagonisti assoluti: le loro performances occupano il 95% dell’intera proiezione.

Gli umani sono relegati al ruolo di comparse e/o di antagonisti: si è invertito decisamente il rapporto tra le due specie. Ed emerge la complessità di Caesar: ora è il Capo, il più dotato, ma anche il più responsabilizzato. In un certo senso avverte tutto il peso del potere assoluto, di un novello Mosé, in una fase ella loro evoluzione che li spinge su un terreno pieno di incognite e di interrogativi tali da scuotere il più fermo dei cuori.

Eppure, come per una scappatoia rispetto all’ignoto, Caesar indulge sulla vendetta personale. Ma lo scontro col capo dei soldati, è però con un uomo fuori dalle righe, folle di odio e cieco di fronte a ogni altra soluzione che non sia distruttiva, e quindi autodistruttiva per sé e l’umanità, perché ha dovuto uccidere suo figlio, in preda del virus che ha distrutto l’umanità e dato l’intelligenza alle scimmie.

L’attore Woody Harrelson ne dà un’interpretazione survoltata, ma adeguata, che cita “dal profondo” quella di Marlon Brando in Apocalypse Now (‘79), senza scimmiottare. Riproduce, volutamente, lo stesso senso di angoscia e assoluto disorientamento esistenziale del Comandante che si era inabissato nelle paludi della follia collettiva, all’interno di una guerra senza senso e prospettive: come era quella del Vietnam nel film di Coppola, tale da cambiare la percezione sociale di sé di un’intera nazione. Lo stesso di oggi,nel film, di un’umanità senza futuro di fronte alla nuova apocalisse. Di cui è essa stessa responsabile. Ed è chiaro il riferimento all’attuale assoluto pericolo attribuitoalla politica Usa del presidente Trump rispetto all’Ambiente.

Lo scontro è diretto e complesso, perché contiene tutti quegli elementi di approfondimento che vengono dalle trasformazioni in atto: e del resto Caesar opererà un cambiamento, molto ben espresso attorialmente, sul suo comportamento. È uno scontro molto “recitato”, tale da rallentare sensibilmente un’azione che fino a quel momento era stata incessante e ad alta densità di dettagli di differenziazione psicologica. Però deve caratterizzare in maniera adeguata gli sviluppi che si sono avuti. Personaggio dagli echi shakespeariani, è interpretato dal più credibile e famoso attore postrealista vivente, l’inglese Andy Serkis, in Motion Capture. Cioè un procedimento, basato su un armamentario tecnico fatto di markers e sofisticate e leggere telecamerine puntate sul viso e per tutto il corpo, grazie ad una tuta speciale, permette di fare, attraverso le riprese digitali, un’elaborazione successiva trasformativa in postproduzione computerizzata, la CGI: è in grado di rendere in modo assolutamente realistico e puntuale la loro natura scimmiesca, sia nelle sequenze del singolo intero personaggio o di interazione di gruppo sia nelle più minute e leggere sfumature recitative facciali.

Una volta le trasformazioni erano fisiche: si ricorreva al make up protesico-facciale, o alla creazione di Effetti Speciali meccanici o visuali, ricorrendo in parte al digitale. Vi sono stati dei maestri come Ray Harryhausen, Vittorio Rambaldi, H.R. Giger o Rob Bottin e altri: degli artisti geniali.

Oggi la Weta, una Company neozelandese specializzata in questo tipo di operatività, fondata dal regista Peter Jackson, che se n’è servito in La Compagnia dell’Anello, ha sviluppato delle tecniche innovative estremamente efficaci, ancor meno invasive e più miniaturizzate: tal che ha soppiantato la pur titolata ILM di George Lucas.

Del resto il Supervisor Creativo della Weta Digital, Joe Letteri, ha assunto lo stesso ruolo come Senior Supervisor dell’intero film, insieme a Dan Lemmon: questi Effetti Visuali (VFX) non solo sono di eccelsa qualità e verosimiglianza, ma sono espressivamente notevoli.

Non ci stupiremmo se, come è stato facilmente preconizzato, per questo film, sarà dato un Oscar all’interpretazione….di una Scimmia.

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