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Memorie – II parte

Certo di fare cosa gradita, LoSpeakersCorner.eu pubblica a puntate le memorie dii guerra del preside Sante Grillo, che durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti di stanza a Scicli, Ragusa.

Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.

    Sante Grillo

Questa volta , però, ero solo ad affrontare il viaggio uesta volta,però, ero solo ad affrontare il viaggio di ritorno al Comando di Deposito del 3° Reggimento Fanteria e forse per questo risultò  lungo e stressante anche perché non avevo niente che mi servisse di distrazione: la mia mente andava inevitabilmente alla mia nuova situazione che non era preoccupante e  lasciava margini molto vasti alla   iniziativa, iniziativa alla quale per la verità non ero stato educato. Comunque era un fatto nuovo che non mi dispiaceva.

Mi sarebbe mancata la famiglia, questo sì, e per me  sarebbe stato  molto pesante visto e considerato che io vi ero rimasto per venti anni a trascorrervi la mia giovinezza e vi avevo compiuti i miei studi fino alla laurea.

Certo,  avrei  dovuto  lasciare  a tempo indeterminato la mia ragazza anche se questo non risultava il mio problema essenziale. C’era tuttavia in me come una grossa percentuale di rassegnazione unita certamente  al grande senso di adeguamento ai fatti che stavano per maturarsi, almeno per la mia persona.

Il senso del dovere poi, un poco innato , un poco acquisito con l’educazione dentro e fuori della famiglia,  completava il quadro.

Sapevo che questo nuovo compito mi avrebbe allontanato in  modo sensibile da teatri di guerra ben più pericolosi ma non  ero allegro: malgrado le notizie dei progressi che i nostri facevano su tutti o quasi tutti i fronti a me pareva che  il fatto di dover ricorrere a reparti specializzati sul nostro stesso territorio facesse intendere che le cose  non potevano essere considerate del tutto scevre da previsioni sfavorevoli. Lo sapevo, era soltanto una sensazione  e non  frutto di un ragionamento basato su dati oggettivi.

C’era poi la convinzione che l’improvvisazione e quindi la impreparazione di reparti cosiddetti speciali non andasse a tutto  vantaggio dei reparti stessi. Più riflettevo  sulla loro costituzione e sul loro armamento  e più mi rendevo conto che qualcosa non andava alla perfezione. “Antiparacadutista”, era una definizione che portava il reparto ad un concetto di super-dotazione, di un addestramento specifico che comprendesse insieme a tante altre cose anche la perfetta conoscenza del nemico, delle sue armi, dei suoi metodi, che avesse, come dotazione, un armamento adeguato e che numericamente potesse affrontare anche situazioni di svantaggio, nel caso ce ne fosse il bisogno. Invece … eccoti battezzato antiparacadutista, come con un colpo di bacchetta magica con un gruppo di uomini che ancora non conoscevo ma che certamente avrebbero dovuto essere prelevati da uomini già provati da ferite o da altri malesseri che non li aveva fatti destinare a fronti ben più impegnativi.

A Siracusa dovetti  pernottare  in una caserma adibita alle truppe di passaggio in una stanzetta destinata agli ufficiali, le finestre erano oscurate, le luci interne del tutto insufficienti, ed io  dovetti arrangiarmi come potevo.

Dopo pochi minuti avvertii il suono delle sirene: era l’allarme aereo ma io non ci feci molto caso perché ero abituato agli allarmi subiti a Messina. Mi aspettavo di sentire la contraerea entrare in azione ma ci fu il silenzio assoluto ad eccezione di un affrettato  movimento di persone che andavano a raggiungere i ricoveri.

Io mi mossi con lentezza, non per coraggio ma per l’abitudine  ad altro frastuono: a  Messina  la reazione  aveva ben altro spessore: le navi da guerra che stazionavano nel porto ricorrevano a tutti i mezzi a disposizione per creare una gabbia in cui gli aerei avrebbero dovuto pensarci due volte, e non due volte soltanto, per entrarvi senza pagare pedaggi.

Il porto di Messina serviva da sede per ben tre incrociatori pesanti, il Trento, il Trieste e lo Zara. Nella loro stazza sembravano più a corazzate che incrociatori ma nelle loro linee apparivano agilissime e straordinariamente belle, oltre che maestose.

Non stazionavano mai sulla stessa linea ed erano protetti da reti di cui si scorgevano i galleggianti. Erano uno spettacolo al solo vederli.

Il fatto è che qualche volta andavi al porto e gli incrociatori erano spariti, non li vedevi più. Certamente erano scivolati via silenziosamente per missioni di guerra. Tanto che qualche volta queste assenze coincidevano con nottate di furore e di fuoco che producevano come il rimbombo di tuoni da tempesta in lontananza.

Quando tornavano li vedevi lì, altrettanto silenziosi di quando erano partiti ed il cuore ti si apriva alla gioia e ringraziavi Iddio per averti concesso di vederli ancora sani e forti come prima.

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Più di una volta accadde che la loro riapparizione coincidesse con un via vai straordinario di ambulanze che sfurettavano per le vie della città fino agli ospedali di periferia.

Erano i giorni neri di Punta Stilo o, per meglio dire, le notti di Punta Stilo dove i bagliori di luminarie immense in lontananza si confondevano con il rumore dannato di un lungo cannoneggiamento.

Una mattina sul molo principale del porto era attraccata dalla parte della poppa la corazzata Giulio Cesare.

Sembrava per quasi tutta una paratia annerita dal fumo, certamente a causa di un incendio a bordo ed era abbondantemente inclinata da un lato. Molte barelle venivano trasportate dall’interno della corazzata fino al molo dove venivano immesse sulle ambulanze. Intorno c’era molta folla, attonita, in religioso silenzio ad osservare quel trasferimento di corpi umani in tragica sequenza senza che ne venisse fuori un lamento, un grido di dolore, una lettura di sofferenza, testimonianza di un tragico sacrificio. Non c’era posto per esternazioni di alcun genere, ma il pallore sui volti, il silenzio stesso erano più rappresentativi di qualsiasi discorso.

Quando invece si era sotto attacco aereo si provava  la sensazione di quando si assisteva ad uno spettacolo pirotecnico straordinario, anche in considerazione del fatto che tutte le colline che circondavano la città erano la base di batterie contraeree che vomitavano fuoco da tutte le bocche talvolta in un crescendo rossiniano ma di ben altra portata e natura. D’altra parte c’era da difendere una base navale importantissima.

In quelle occasioni, non appena si sentiva il segnale di allarme. Noi, già militari in divisa ed io, da fresco sottotenente, dovevamo correre in caserma per essere disponibili ad ogni evenienza. Dovendo vestirmi in fretta , accadendo spessissimo durante le ore notturne tenevo tutto pronto in modo che potessi impiegare il minor tempo possibile e poi via di corsa anche sotto il bombardamento , pericoloso, anche solo per gli spezzoni che cadevano dovunque e con una frequenza sensibile. Gli spezzoni erano quelli riferiti alla contraerea.

Accadde solo qualche volta che gli spezzoni fossero quelli lanciati dagli aerei e per lo più  incendiari lungo la strada ferrata e nei pressi della stazione marittima. Erano questi i pensieri sempre presenti nel mio  cervello dove i fatti e le immagini erano come scolpiti indelebilmente.

In qualche modo la notte passò: ero assonnato ma tutto sommato era andata bene ed a Siracusa le batterie non avevano sparato.

Quando mi rimisi sul treno ripresi i miei pensieri ma spesso ero distratto da un paesaggio straordinario soprattutto nel tratto che andava da Catania a Messina: il mare era lì a portata di mano, il suo colore era di un azzurro intensissimo interrotto qua e là da molteplici scogli che mi riportarono  ai mitici tempi dei Ciclopi che la mitologia voleva autori di quelle isolette quando, quasi per gioco, intendevano colpire con il lancio di enormi blocchi di roccia, staccati dalla montagna, i malcapitati naviganti.

A Messina si fece tutto in fretta: i reparti vennero approntati e forniti di tutto il materiale necessario per una vita indipendente, ci assegnarono le armi e poi via su una tradotta militare,  approntata solo per noi.

In quella occasione rividi gli ufficiali, che la prima volta erano partiti insieme a me e così potemmo scambiarci notizie ed opinioni. Da quello che mi risultò, pensai di non essere andato tanto male in fatto di destinazione perchè altri miei colleghi non avevano rose e fiori da raccontare. Il paese a me destinato era un centro agricolo abbastanza importante, con un numero maggiore di abitanti rispetto a tanti altri del circondario.

Se poi avessi dovuto rapportare le mie considerazioni con quello che avevo visto al Comando di Reggimento certamente il paese avrebbe potuto essere considerato di una notevole ricchezza. Il Comando, infatti, aveva sede in un palazzo bellissimo dalle sale immense e super decorate con stucchi ed affreschi stupendi: le baronie ancora esistevano.

In un doppio scompartimento di terza classe ci disponemmo noi ufficiali dopo aver controllato gli uomini, i materiali, le armi in dotazione e tutto il resto. Ognuno di noi prese in carico trenta militari di cui due sottufficiali, due caporali e ventisei uomini di truppa scelti alla rinfusa dai residui di materiale umano esistente nel Deposito.

Ancora non ero in grado di valutare la qualità dei miei uomini ma da un primo esame mi apparvero alquanto depressi soprattutto in materia di entusiasmo: qualcuno proveniva da altri fronti di guerra e nel fisico non sembravano in buona forma. Era tutto ciò che offriva la piazza, non bisognava dimenticarlo, in effetti era ciò che rimaneva a disposizione degli effettivi del terzo reggimento di fanteria inviato sul fronte greco, dei suoi innumerevoli complementi inviati  frettolosamente in sostituzione di quegli uomini che risultavano feriti, soprattutto congelati, dispersi per la massima parte nei momenti meno fortunati della campagna. ed i morti

Tra questi ci fu un mio cugino, granatiere, che non fece in tempo a nascondere la sua statura nelle trincee di fortuna scavate in tutta fretta nel fango di una stagione molto piovosa.Da borghese aveva esercitato lo sport da lui preferito:il lancio del martello, specialità non molto seguita ma che per lui aveva una particolare attrazione. Di tanto in tanto mi accadeva di vederlo esercitarsi nel lancio e di ammirarlo nello stesso tempo. Ora era uno dei tanti che aveva consegnato la vita alla Patria.

In attesa di nomina a sottotenente avevo chiesto di essere destinato al 3° Reggimento di Fanteria  perché avevo saputo della destinazione in Albania di mio fratello, brigadiere dei Carabinieri. Pensavo che potesse verificarsi il miracolo di un incontro nel caso in cui io stesso fossi stato destinato su quel teatro di guerra. Invece per un destino assolutamente diverso il treno mi stava trasportando verso l’ultimo lembo della Sicilia.

In quei casi, penso, fosse meglio non provare sentimenti. Forse i miei desideri sarebbero stati più soddisfatti se mi fosse stata data la possibilità, anche se difficile, di incontrare mio fratello. Lo avevo sperato tanto perché per lui non avevo soltanto affetto ma provavo una devozione straordinaria, ancor più che per mio padre. Invece…

Per un reparto che intendeva opporsi validamente a truppe super addestrate come i paracadutisti non c’era proprio molto da stare allegri in fatto di armamento. Forse andavamo un pochino meglio per i mezzi, essendo forniti di un camion, di una motocicletta e di due biciclette, queste ultime nuove fiammanti.

Le considerazioni che facemmo nei nostri scambi di idee non furono certamente euforiche, tuttavia il fatto che qualcuno di noi pensasse che potevamo andar peggio ci consolò in parte e  non continuammo il discorso, quando uno degli ufficiali affermò che il tutto rispondeva alla necessità di un impiego rapido che non poteva trovare riscontro se non nella leggerezza con cui dovevamo muoverci in caso di una immediata chiamata all’azione. Non capii perfettamente se in quella dichiarazione ci fosse un pizzico di ironia; non ebbi il coraggio di chiederglielo.

Due fucili mitragliatori, trenta fucili modello novantuno, due pistole d’ordinanza in dotazione ai due sottufficiali e due pistole da segnalazione forse non erano l’optimum per un volume di fuoco che facesse paura a paracadutisti armati fino ai denti, perfettamente addestrati e non soltanto sui lanci dagli aerei. Forse valeva di più la grinta di chi impugnava quelle armi. Mi accorsi a quel punto  che ero io a fare un poco di ironia.

(Fine seconda parte)

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