Culturain memoriam

Memorie – Volume secondo, parte quinta

Certo di fare cosa gradita, LoSpeakersCorner.eu pubblica a puntate il secondo volume delle memorie di guerra del preside Sante Grillo, che durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era in Siclia, Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti.

Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.

                                                                         Sante Grillo

            M a r s i g l i a

Sbarcammo con il sistema che ci avevano fatto provare centinaia di volte e cioè con le grandi reti che pendevano dalle fiancate delle navi e che portavano sui mezzi da sbarco più agili nei movimenti ed attrezzati per giungere direttamente sulle spiagge basse dove bastava abbattere le paratie anteriori per consentire ai soldati di mettere piede a terra.

Non fu cosa molto facile sbarcare perché il porto di Marsiglia era quasi impercorribile almeno dai mezzi navali più grandi perché ne impedivano il passaggio decine e decine di fumaioli che spuntavano dalla superficie dell’acqua come funghi mai raccolti. Era uno spettacolo impressionante soprattutto per il numero di ciminiere che indicavano con una certa verosimiglianza il numero di navi affondate, probabilmente dai tedeschi prima di abbandonare la base portuale che avrebbe dovuto servire da base logistica alla testa di ponte americana. Noi infatti per poter giungere a riva fummo costretti a fare un percorso molto simile ad una difficilissima gimcana, ma alla fine toccammo la fatidica terra.

Come eravamo giunti fin lì? Lasciammo l’Africa all’improvviso per un ordine preciso: ci caricarono sui camion e via dal campo di addestramento fino al porto di Algeri. Fummo imbarcati su una nave Liberty e in un convoglio composto da sei navi partimmo per la Francia.

Noi non sapevamo quale fosse la nostra destinazione ma non fu difficile capirlo da qualche indiscrezione colta a volo dall’equipaggio americano che trovammo, ormai, molto disponibile al dialogo.

Il viaggio non fu semplice, perché il Mediterraneo in quella occasione non fu molto generoso e in modo particolare quando entrammo nel golfo del Leone. Il mare era da burrasca e le navi danzavano come fuscelli, per cui spessissimo non riuscivamo a vedere la seconda nave del convoglio perché sembrava inghiottita da una voragine aperta nell’acqua profonda. Successivamente tornavamo a vederla soltanto in cima ad una muraglia di acqua che sembrava una immensa montagna.

Molti di noi cominciarono a soffrire il mal di mare e li vedevi come spettri scivolare silenziosi verso le paratie e da lì svuotare il sacco dopo orrende convulsioni. Io non ne soffrii molto, tranne che per uno stato di nausea che non riuscivo a smaltire ma che mi dava insieme un senso di squilibrio dovuto anche alle pendenze alternate, di qua o di là, della nave in sospensione ora in cima all’onda ora nel profondo abisso della stessa.

Dal comando della nave ci giungevano numerosi consigli sul come comportarci, sulla necessità di mangiare, escludendo bibite di qualsiasi genere, per avere sempre nello stomaco qualcosa da poter rimettere. In seguito, cambiando rotta e finalmente tagliando la direzione delle onde, subimmo soltanto uno dei malesseri principali ed il disagio diminuì considerevolmente, ma quando questo accadde eravamo quasi giunti a destinazione.

Toccammo finalmente terra: non era certamente l’Italia, ma ormai eravamo molto vicini alla nostra Patria. Ne sentivamo l’odore ed era inebriante, le nostre condizioni giuridiche erano cambiate ed il pensiero del futuro cominciava ad essere meno pessimista anche perché, in definitiva, le sorti della guerra si delineavano con contorni meno foschi e più prossime alla fine.

Eravamo quasi sereni, ma non lo erano i nostri cugini francesi che cominciarono a starnazzare come polli spennati quando ci videro sbarcare con le armi. Certamente non potevano sapere che senza munizionamento non avremmo potuto usarle neppure per fare le bolle di sapone! I francesi non potevano dimenticare che gli italiani li avevano colpiti alle spalle quando stavano esercitando il loro sforzo maggiore contro la Germania e pertanto fecero di tutto perché fossimo disarmati. Ottennero quello che desideravano, e per noi fu un vero piacere esserci liberati da un fastidioso oggetto da portare a spasso solo per l’apparenza.

Così, dopo alcuni giorni di sosta nelle vicinanze di Marsiglia partimmo per altra destinazione. Tuttavia fu una parentesi piacevole, visto che un gruppetto di noi ebbe modo di incontrare famiglie italiane che si erano stabilite in quella zona e che ci accolsero con grandissima gioia. Fu come se fossimo in terra italiana e finalmente ci sentimmo veramente felici.

Ricordo ancora come in una di quelle sere ci offrirono una cena a base di coniglio cotto all’agrodolce e fu veramente una festa: non mangiavamo in quel modo da secoli, almeno così ci sembrava, e sentimmo l’odore ed il sapore delle nostre famiglie. Il calore con cui fummo accolti è rimasto impresso nella mia mente e nel mio cuore in maniera indelebile, tanto è vero che ricordo il particolare più di quanto non abbia potuto archiviare nella memoria tanti altri particolari che, forse, avrebbero potuto essere almeno citati in questo mio breve racconto.

Ci spostammo sulle rive del lago de Berre posto fra Marsiglia e Aix-en-Provence, e lì cominciammo a lavorare come negri. Certamente gli americani non ci avevano portati fin là per farci godere le bellezze della zona e neppure per farci riposare: eravamo collaboratori e come collaboratori fummo impegnati.

Il mio plotone fu impiegato come se fossimo degli specialisti nello smistamento del materiale. Qui ebbi la precisa idea della potenza dell’America sia per l’organizzazione bellica sia per la grandiosità dei materiali impiegati.

Il nostro compito fu molto semplice: disposti ai lati di un lunghissimo rullo su cui scorrevano tutte le specialità di manufatti che potevano essere utili in una guerra. Disposti in prossimità di deviazioni con rulli secondari ogni uomo doveva captare il materiale a lui assegnato e portarlo sul rullo che gli competeva. Questo succedeva per decine e decine di deviazioni al cui termine prendevano il materiale selezionato e lo disponevano in grossissime pile  che si alzavano a vista d’occhio.

Il tutto veniva alimentato senza soste da camion e mezzi anfibi che scaricavano i manufatti che avevano preso direttamente dalle navi da trasporto.

Non era un lavoro massacrante ma massacrante era il turno di lavoro che per il mio reparto andava dalle diciannove  alle ore sette del mattino, con un’ora di intervallo dalle ventitre alla ventiquattro. In quel lasso di tempo potevamo sorbire una tazza di caffè all’americana che serviva solo per scaldarci.Quando poi l’inverno fece sentire i suoi strali come non aveva fatto per decine e decine di anni nel passato, il caffè non servì neppure per questo, perché bastava il tempo per andare dal prelievo alla bocca per essere di già freddo: il gelo fu tanto intenso che alla sera al cadere del sole le pozzanghere diventavano di ghiaccio.

Un giorno alla settimana potevamo andare in permesso perché di riposo e molti di noi, compreso il sottoscritto, usarono quel giorno solo per riposare: effettivamente ce n’era bisogno. Io dormivo sotto una tendina singola che avevo ampliata scavando un fossato al di sotto del livello del terreno che mi consentiva almeno di stare in piedi. Il soldato addetto alla mia persona mi costruì un lettuccio di tavole e con l’aiuto di molta paglia riuscì a combinare un buon letto per dormire decentemente. Gli americani ci fornirono anche una piccola trapunta che fu veramente la salvezza.

La notte fra la vigilia e Natale nevicò abbondantemente ma io non ebbi la possibilità di godermi né la neve né la festa perché ero molto turbato dalla nostalgia e dal pensiero costante della famiglia.

Rognac (Marsiglia)

I mesi invernali non erano affatto adatti a conoscere il paese anche se a me era del tutto indifferente conoscerlo: il mio animo non era disposto a curiosare per le strade che fra l’altro sembravano deserte, in parte perché le temperature erano bassissime, e di gente per le vie se ne vedeva ben poca. Per altro non credo che gli abitanti del paese avessero una gran voglia di conoscerci e preferivano restarsene ben tappati in casa piuttosto che venire a curiosare nei pressi dell’accampamento. E poi io nei miei giorni di riposo preferivo riposare veramente perché l’impegno era fortissimo e non si poteva fare diversamente, non per coercizione, perché questa non esisteva, ma perché in quelle ore notturne si faceva di tutto per non restare inattivi.

Noi ufficiali, non avevamo l’obbligo di lavorare e il nostro intervento si limitava a vedere il da farsi e quindi farlo eseguire dai propri soldati. Ma io lavoravo insieme a loro, non certo per conquistarmi la loro simpatia – quella me l’ero conquistata per ben altri motivi – ma per disperazione in quel freddo intensissimo che non ti consentiva di star fermo per qualche attimo senza correre il rischio di congelarti. Le ore più difficili erano proprio quelle che precedevano il sorgere del sole: in quei momenti la temperatura si abbassava in modo pauroso e non bastava neppure il ricorrere al lavoro intenso per potersi tenere caldi.

Quando poi i rifornimenti dal mare cominciarono a diminuire e l’attività divenne meno frenetica il mio reparto venne adibito ad altro incarico: fummo addetti al caricamento dei treni che si fermavano dentro il campo di lavoro. Ci consegnavano un elenco di materiale da caricare su un carro merci e noi provvedevamo, quasi in maniera autonoma, a portare a termine il lavoro.

Vista la rapidità del lavoro che portavamo a buon fine prima del previsto, cominciai a chiedere di rientrare non appena avevamo completato quello assegnatoci. In questo modo ci eravamo conquistata la stima degli ufficiali americani addetti all’ufficio, che non mancarono di premiarci permettendo che andassimo a letto prima dell’orario stabilito, con grande gioia dei miei soldati e mia. Io credo che i condannati di Dante nel girone dell’Inferno sprofondati nel ghiaccio perenne soffrissero il freddo molto meno di noi.

Poi gli americani si fecero più furbi e cominciarono ad aumentare il numero dei carichi, prima due, poi tre ed infine, quando si accorsero che anche a quelle condizioni noi portavamo avanti il nostro lavoro, decisero di privilegiarci spontaneamente senza aspettare che noi glielo chiedessimo.

Qualche notte non c’era alcun lavoro da portare a termine e per evitare che sostassimo per molto tempo fra le cataste di viveri senza far niente e quindi a cercare di provvedere a rifocillarci senza averne il permesso, ci portavano in uno spazio sorvegliato dove restavamo fermi a tremare dal freddo.

Di tanto in tanto per qualche lavoro straordinario venivano direttamente da me per chiedermi di farlo ed io acconsentivo a patto che, finito il lavoro, potessimo tornare al campo per dormire. Era un compromesso che andava bene per noi e per loro, per cui ci capitò spessissimo di combinare il baratto.

In quel periodo accadde un fatto che fece tremare gli americani. Tremavano veramente e non solo per il freddo: certamente le Ardenne erano molto lontane, ma la grande battaglia che vi si consumò fu enorme e tremenda.

Ci fu proibito persino di accendere fuochi che ci consentissero di riscaldarci per timore che gli aerei tedeschi potessero individuarci per mezzo di quelle insolite luci. E pertanto i nostri baratti ci servirono ancora di più.

La notizia che i tedeschi avevano sfondato il fronte degli alleati e che stavano sciamando in tutte le direzioni con le loro divisioni corazzate non turbò soltanto gli americani. Eravamo preoccupati anche noi che conoscevamo quasi perfettamente la determinazione dei tedeschi e la loro velocità di esecuzione dei piani di battaglia prestabiliti.

Le Ardenne fecero drizzare i capelli a tanti americani e solo in virtù delle forze aeree fu possibile evitare il peggio. Comunque fu una batosta dalla quale si riebbero dopo molto tempo e con enorme sacrificio di vittime e consumo di materiali caduti in grandissima parte in mano ai tedeschi, che però non ebbero il tempo di utilizzarli come avrebbero voluto.

Poi, finalmente venne il bel tempo e gli aerei americani cominciarono a prendere il sopravvento scaricando sui mezzi corazzati tedeschi migliaia e migliaia di tonnellate di bombe. Dapprima la virulenza dell’attacco diminuì di molto, poi si fermò del tutto: la grande battaglia delle Ardenne ebbe termine e, dico la verità, respirammo tutti, noi insieme agli americani.

Purtroppo anche con il miglioramento del tempo, anzi forse a causa di questo, il freddo non accennò a finire e noi avemmo il privilegio di goderci l’inverno più gelido degli ultimi cinquanta anni.

Il lavoro continuò ad essere intenso per molto tempo ancora, poi cambiammo turno passando dalle ore notturne a quelle diurne e, grazie a Dio, venne la primavera, quella vera, con il tepore della temperatura, con il verde dei prati, con le distese di fiori che intessevano di colori straordinari i dintorni del lago. Mai avevo, nella mia vita, apprezzato tanto l’avvento di una stagione così bella, ed io non avendo più bisogno di riscaldarmi con il lavoro potevo, una volta date tutte le disposizioni possibili, ricrearmi ai generosi raggi di sole.

Ritornavo finalmente alla vita, come tutti gli altri esseri del creato, come in uno stato di beatitudine. Il tempo delle marce forzate, della sete, della fame, delle terribili ore di paurosa solitudine era ormai lontanissimo, dietro alle spalle. Il ricordo dello sbarco degli alleati sulle coste della marina di Ragusa, il lancio oscuro e terribile dei paracadutisti, la parossistica attesa di uno scontro inevitabile, la lunghissima serie di tappe di un percorso imprevedibile lungo tutto un viaggio fatto di umiliazione e di collassi psicologici per una situazione giuridica che di fatto che non riuscivo a digerire in nessun modo, non esistevano più nella mia memoria.

Esistevamo soltanto i tepori della primavera, i fiori che sbocciavano sul tappeto verde dei prati, la grande speranza della non più lontana fine delle tribolazioni. Tutto diceva che la guerra sarebbe finita presto, mentre le armate anglo-americane e quelle russe dall’altra parte dell’Europa dilagavano da est e da ovest su tutto il territorio tedesco ridotto in un’unica rovina e su un popolo distrutto fin nel più profondo dell’animo, caduto ormai dal più alto vertice della gloria alle più infime situazioni di miseria. Purtroppo la vita è così fatta.

A Rognac, però non ci fermammo per molto ancora e non andammo purtroppo verso est, verso l’Italia, ma fummo avviati verso una meta molto a nord ai confini della Renania, verso Strasburgo. Turisti per forza, potemmo goderci le bellezze della valle del Rodano che risalimmo fino a Lione e poi attraverso sterminate foreste giungemmo nelle verdi vallate di Epinal, nei Vosges.                                                        

Epinal

Per giungervi avevamo attraversato in treno una immensa regione di conifere che sembravano essere le propaggini della Selva Nera sulle rive di un fiume non molto ampio, perché vicino alle sorgenti, ma molto bello per le straordinarie sinuosità che aggiungevano splendore e bellezza ad un paesaggio già di per se stesso magnifico.

Forse era ancora l’effetto della primavera e soprattutto la fine dei mesi invernali che avevano pesato oltre ogni dire sul mio fisico e sul mio morale. Era come se avessi ripreso a vivere dopo un intorpidimento durato mesi e mesi.

Ricordo come in una di quelle notti in cui il gelo si faceva sentire di più mi colse un fortissimo mal di testa che mi costrinse a chiedere il permesso di tornare nell’accampamento. Avevo appena percorso il tragitto per uscire dal campo di lavoro quando nell’abbassarmi per evitare la traversa che serviva da entrata e da uscita non calcolai bene la distanza ed andai a sbattere violentemente con il capo sulla traversa stessa. Per un attimo mi sembrò di perdere l’equilibrio ma quando mi ripresi dalla botta tremenda il dolore di testa mi era passato. L’inevitabile afflusso di sangue che giunse repentinamente alla testa neutralizzò di colpo il gelo che aveva provocato il dolore.

Ormai non era più il caso di tornare al lavoro e così potei riposare tranquillamente senza neppure la preoccupazione per le ragioni che avevano potuto provocare il malessere. Per una volta tanto senza volerlo ero riuscito a farla franca.

Fummo accantonati in una vecchia fabbrica tessile su una collina, che sembrava cullarsi fra le braccia del fiume Mosella che la circondava per tre quarti della sua estensione. Eravamo peraltro circondati da alberi quasi centenari che ombreggiavano la zona oltre il necessario perché aggiungeva umidità all’umidità, un poco per l’altitudine, un poco per il gran verde che ci circondava. Fu quella la prima volta che ci fu data la possibilità di dormire fra quattro mura ma non potemmo usufruire di brandine anche se fatte molto, ma molto artigianalmente.

La sera, dopo le ore stabilite per il lavoro, potevamo andare in libera uscita e come dei buoni Italiani cominciammo a guardarci intorno e non solo per ammirare i dintorni. Io ero solito scendere per viottoli fino alla villa del comune dopo avere attraversato un ponte e sostavo volentieri su una panchina da cui era possibile godere di un paesaggio da cartolina. Mi ci fermavo anche per pensare e per meditare sul lavoro per il quale eravamo stati scelti e che non mi piaceva affatto: i soldati dovevano dipingere di bianco delle croci e segnarvi con uno spry adatto dei nomi e dei numeri di matricola. Servivano purtroppo per distinguere le tombe dei militari caduti, alla cui sepoltura provvedevano gli stessi nostri uomini.

Io non volli più farlo e chiesi al mio comandante di compagnia che mi cambiasse l’incarico e. poiché fino a quel momento non avevo mai discusso e mi ero sobbarcato ad oneri spesso pesantissimi, fui accontentato e divenni così il provost marshall della zona.

Che cos’era il provost marshall? Era una specie di sceriffo, per intenderci meglio, che sovrintendeva ad una specie di carcere dove venivano rinchiusi coloro che erano accusati di qualcosa. Naturalmente per gli americani la cosa era più grave perché i soggetti ad un giudizio di tempo di guerra permanevano nel carcere solo di passaggio, ma la disciplina alla quale erano sottoposti era veramente ferrea, quasi guardati a vista, sia per colpevolezze lievi sia per quelle più gravi.

Cercai di fare quello che ritenevo mio dovere fare. Dividevo il mio tempo con l’incarico di provvedere al prelevamento delle derrate necessarie alla cucina.

Condividevo quest’ultima incombenza con un sottufficiale molto sveglio che pensava a tutto. Poco più tardi compresi anche che tale sollecitudine che gli consentiva una certa importanza nelle relazioni con il pubblico. Sapeva arrangiarsi e lo faceva tanto bene da non lasciare traccia alcuna se non all’intuito di chi gli stava vicino. È necessario però aggiungere che lo faceva anche per il reparto, alla cucina del quale faceva pervenire più materiale di quanto non fosse prescritto. Tuttavia non lo colsi mai in fallo e non potrei mettere la mano sul fuoco sulla sua colpevolezza che, diciamoci pure la verità, in quelle condizioni ed in quello stato giuridico, non avrebbe potuto essere definito ladrocinio, almeno a guardarlo dalla nostra parte.

Per contro, quando eravamo a Rognac nello smistamento dei materiali che sbarcavano dalle navi anch’io avevo fatto la mia parte con il portar via dal deposito cassette di sigarette che gli americani custodivano con eccessiva attenzione, visto che a guardare le grandi pile di quelle cassette c’era un bel numero di Marocchini armati fino a denti.

Debbo dire la verità: un poco a mia discolpa, in quelle condizioni non si poteva parlare di ladrocinio perché occorreva una abilità straordinaria per farla in barba alle sentinelle che stavano lì, quasi con gli occhi sbarrati per evitare di essere fatti fessi. Si trattava appunto di questo, cioè di saper farli fessi senza che se ne accorgessero, usando una rapidità ed una destrezza che non era di tutti perché occorreva aggiungervi anche una buona dose di intelligenza e di tempestività. Non potevi assolutamente sbagliare se non volevi essere infilzato da quelle lunghissime baionettone, che in quell’occasione sembravano ancora più lunghe.

Oggi, ripensando a quelle cose mi viene da ridere, ma solo un giovane di ventitré anni poteva azzardarsi a fare quello che rischiavo. Una volta quando, avendo calcolato tutto compreso il tempo che occorreva alla sentinella per percorrere tutto il giro, mi lanciai come una catapulta per carpire la mia preda, in quello stesso istante percepii che la sentinella era tornata indietro per cui dovetti frenare il mio slancio con una stretta ai freni e chinarmi per fingere di allacciarmi le scarpe. Non potei verificare se la sentinella avesse sospettato qualcosa, ma il mio movimento non era stato del tutto naturale e penso di aver lasciato in lei un qualche sospetto ed io non tentai più l’avventura: sarebbe stato come voler sfidare ad ogni costo la fortuna.

In fin dei conti avevo già dimostrato a me stesso ed agli altri che, volendo, lo potevo e lo sapevo fare. Ero peraltro convinto che per ottenere il rispetto di coloro che mi attorniavano occorreva fare anche quello, dimostrando non solo destrezza ma anche un gran pizzico di coraggio. Il risultato mi sembrò evidente quando in tempi di ricusazioni varie i miei soldati non discussero mai quello che suggerivo di fare, non che comandavo di fare.

Ci furono anche altre occasioni per ottenere il rispetto e la fiducia dei miei uomini ed ormai, qualunque cosa facessi per loro andava sempre bene, soprattutto quando avevo a che dire con i coordinatori americani: mi facevo sentire anche a voce alta quando si permettevano di scavalcarmi e andavano a dare ordini direttamente ai miei soldati senza passare per il mio benestare. In effetti era del tutto inutile che lo facessero, perché i soldati non si muovevano affatto, se non dopo i miei ordini. Erano piccoli episodi che servivano ad aumentare il mio prestigio, ma per me non erano affatto piccoli, soprattutto per l’effetto che determinavano.

Comunque ad Epinal avevamo ottenuto una indipendenza che non si sarebbe potuto pensare per prigionieri di guerra, sia pure nelle vesti assolutamente nuove di collaboratori. Cominciammo anche ad organizzare feste di ballo alle quali partecipavano moltissime persone, così tante che gli stessi americani ci invidiavano fino a quando smisero essi stessi di organizzare le loro feste e vennero a partecipare alle nostre. Non mancarono inghippi, perché qualche americano dimenticava di essere lì in veste di ospite e pretendeva precedenze che regolarmente non otteneva.

Fu anche per me un particolare momento di tregua per le mie preoccupazioni di carattere psicologico: non era del tutto estraneo a quel miglioramento la speranza che la guerra cominciasse a mostrare la via della fine.

I tedeschi avevano subito una disfatta che non si sarebbero mai potuti sognare, il Giappone resisteva ancora, ma le sue conquiste stavano per cadere ad una ad una nelle mani degli americani sia pure con perdite enormi in uomini e materiali. Si aggiungeva il fatto che ci pervenivano notizie più dettagliate sulle condizioni dell’Italia e degli Italiani che miglioravano ogni giorno di più in forza della loro volontà di risollevarsi dalle grandi distruzioni che li avevano prostrati più di quanto non si potesse pensare.

Ci giungeva notizia che un certo signor De Gasperi stava guidando l’Italia nel miglior modo possibile. Anche da questo punto di vista le cose stavano prendendo il verso giusto: si allontanava dalle nostre menti il pensiero che tornando in patria potessimo assistere al più tremendo degli spettacoli con una Italia assolutamente prostrata e nelle condizioni di non aver più neppure la speranza di risollevarsi.

Fu purtroppo il mio fisico che cominciò a dare segni di stanchezza. Le mie gambe e la mia schiena cominciarono a non reggermi più e il medico dell’infermeria si espresse su una prognosi di fortissima forma di artrosi lombo-sacrale con ripercussione sul nervo sciatico di entrambi le gambe. Mi prescrisse una cura con sei pasticche di aspirina al giorno che, sì, mi fece passare i dolori, ma mi procurò una forma di gastrite acuta che non riuscii mai ad eliminare.

Di notte ricaddi negli incubi più disastrosi che sconvolgevano i miei sonni, facendomi attorcigliare nel lettino per tutto quello che la mia psiche mi somministrava, facendomi immaginare cose del tutto impossibili ma che mi costringevano a non poter dormire. Riaffiorava nelle mia mente tutto ciò che di più doloroso avevo sofferto.

L’Africa divenne il mio incubo più ripetuto con la sua sabbia, i suoi reticolati, il suo insopportabile calore, con il confondersi di treni pestilenziali con il loro insopportabile fetore animalesco, la fame mista alla mia straordinaria debolezza fisica e mentale, la mia solitudine, sì, la mia solitudine che non mancava anche allora di tormentarmi, facendomi sentire ancora più solo nella sofferenza che nessuno avrebbe potuto dividere con me.

Durante la notte, quando gli spasmi superavano ogni aspettativa e mi costringevano a balzare fuori dal letto per correre al bagno e non riuscivo a camminare dritto dovendomi curvare fino a toccare con le mani il terreno per l’impressione che si aggiungeva al dolore di non potere mantenere l’equilibrio. Il dottore mi dette dei calmanti ma questi si insinuarono torbidi e perversi nella mia mente accrescendo e moltiplicando le differenze fra la calma ed il disastro determinato dagli incubi.

Non credo di poter definire stranamente avvertite tutte le situazioni dolorose che si confondevano in un miscuglio di realtà vissuta e fantasia alterata. Fu certamente un difficile momento che durò a lungo, tanto che ancora oggi ne patisco le conseguenze. Sembrava che non avesse avuto conseguenze il fatto di aver dormito per decine e decine di giorni su terreno bagnato, di aver assorbito tutta l’umidità possibile in quelle notti caratterizzate da un freddo quasi impossibile a sopportarsi dopo giornate di calore infernale, e tutto senza alcuna protezione, e invece cominciavo a pagarne lo scotto.

Erano i giorni in cui la mia solitudine si accentuava e non sostenevo il pensiero del futuro che non aveva sfogo alcuno perché privo assolutamente di speranza.

Come se non bastasse, si aggiunse un fortissimo dolore di denti che mi costrinse a chiedere l’aiuto dello specialista. E qui a merito degli americani non posso fare a meno di ricordare che non ci pensarono due volte a mandarmi con un camion e l’ausilio di un infermiere nella città di Strasburgo, dove c’era di stanza uno studio di ufficiali medici specialisti che ti curavano senza neppure chiedersi di che nazionalità fosse il malato e con tutti i mezzi a disposizione. Feci questi viaggi per un mese di seguito fino a quando la mia dentatura fu considerata perfettamente a posto.

Fu in questi frangenti che il Giappone si arrese incondizionatamente in seguito al lancio delle due bombe atomiche su due città giapponesi. Confesso che non pensai né alle vittime né ai disastri causati dalle due terribili esplosioni atomiche, pensai solo che si stava avvicinando il momento del ritorno in patria, anche se nel mio subcosciente non riuscivo ad essere contento più di tanto.

Pensavo egoisticamente che i giapponesi avevano avuto due grandi città eliminate dalla carta geografica ma che l’Italia aveva subito come il passaggio di un rullo compressore gigantesco che aveva portate tutte le nostre città, dal sud più profondo al nord più elevato delle Alpi, alla prostrazione ed alla distruzione quasi totale.

Non potevo certo essere felice di tutto questo e il pensiero del ritorno possibile, mi rendeva sempre più ansioso sempre più insofferente tanto che non riuscivo più ad andare d’accordo con quei miei compagni con i quali fino a quel momento avevo diviso momenti difficili, sempre più difficili.

Il desiderio della famiglia diventava di giorno in giorno sempre più insopprimibile e la smania di quei giorni rendeva ancora più dolorosa la sopportazione degli incubi notturni che non mi lasciavano tregua alcuna.

Quell’angolo di Francia era bellissimo ma non aveva niente a che vedere con la mia Sicilia ancorché riarsa dal sole ed il pensiero della mia famiglia mi rendeva estranei tutti, indistintamente tutti coloro con i quali , per poco o per molto, avevo a che fare.

Un bel giorno si aggiunse il fatto che avendo voluto vedere un film sulla sistematica distruzione degli Ebrei in Germania, esterrefatti per quello che avevamo visto senza minimamente aver immaginato prima che ciò fosse stato possibile fummo assaliti da forsennati francesi che naturalmente ci consideravano complici di tanto misfatto. Ci fu una specie di caccia all’italiano per le vie della città e durò finché noi non avemmo la precisa percezione di ciò che stava accadendo e quindi facemmo quel che potevamo fare e cioè ritornare all’accantonamento non senza aver restituito pan per focaccia ciò che stavamo subendo.

Forse i francesi avevano tutte le ragioni possibili ma noi eravamo rimasti storditi alla pari per quello che avevamo visto e non pensavamo mai e poi mai che una cosa del genere potesse essere realmente accaduta.

Gli americani ci consegnarono in caserma per più di una settimana e ci proibirono di uscire per la città ma i paracadutisti americani di stanza ad Epinal, quasi tutti italo-americani, partirono alla contro offensiva e fecero un po’ di paura a tutti i cittadini fino a che le acque sembrarono acquietarsi.

Io non volli più andare fuori, ma non per paura – infatti bastava non uscire da soli – ma perché qualunque tipo di compagnia mi dava fastidio.

Il nostro reparto dopo qualche tempo non ebbe più incarichi di sorta pertanto restammo inattivi ma stranamente e, forse neppure tanto stranamente, più ansiosi ed io molto più di ogni altro. Avevo molto tempo per pensare e, come sempre accade in queste occasioni, il pensiero ripercorre le vecchie strade e soprattutto quelle più sofferte che avevano scavato nel mio animo un solco che certamente non si sarebbe mai più cancellato dalla memoria.

Non erano state tanto le paure quanto le incertezze che avevano dominato il mio animo tutte le volte che occorreva prendere decisioni di cui non potevi prevedere l’effetto e delle quali avrei dovuto rispondere responsabilmente.Certamente ne venivo fuori ma dopo quali sofferenze dopo quali contorcimenti e tentennamenti, che non solo non potevi esternare ma che dovevi necessariamente nascondere a chi soprattutto guardava il mio viso per leggervi ancor prima che decidessi in un certo modo che cosa passava per il mio cervello.

Parlo naturalmente dei miei soldati quando correvamo a destra ed a sinistra nella ricerca di paracadutisti: la loro sicurezza dipendeva dalla mia sicurezza e le loro paure sarebbero state determinate dalle espressioni dubbiose del mio viso. Non ebbi mai occasione di leggere dei dubbi sui loro visi e questo mi faceva pensare che i miei atteggiamenti erano chiaramente dettati dalla sicurezza delle decisioni o per lo meno che non esistevano alternative che potessero lasciare incertezze. Ma, parliamoci chiaro, io i miei dubbi ce li avevo, eccome, e le viscere in quei momenti si torcevano come panni da strizzare. Il problema era di non mostrarli, di non farli avvertire in alcun modo.

Non potevi neppure alzare gli occhi al cielo perché sarebbe stato, anche quello, un modo per fare impensierire chiunque. In quelle occasioni anche le superstizioni si inserivano prepotentemente come serpenti velenosi per accrescere il dubbio e l’incertezza. Mi accadde che, dopo la notte dello sbarco degli americani sulle spiagge di Marina di Ragusa, in una piccola pausa in cui il reparto poté rifocillarsi, io, rifiutando il cibo, impegnai il mio tempo a radermi la barbetta che avevo voluto farmi crescere in attesa di andare a casa in licenza. Considerai quella barbetta come portatrice di sfortuna e per un incomprensibile atto scaramantico me la tolsi del tutto. Oggi mi viene da ridere, ma allora… Ancora non so che cosa mi fosse accaduto e non trovo giustificazioni razionali.

Insomma, in ogni decisione che dovessi rendere non avevo controparte con cui consultarmi e la responsabilità erano eccessive per un giovane sottotenente che doveva decidere da solo. L’autonomia era stata un cosa bellissima ma in quei momenti sarebbe stato preferibile che le decisioni, quelle importanti che dovevano decidere della tua vita e di quella dei tuoi dipendenti, fossero prese non dico da altri ma almeno in collaborazione con qualcuno, come accade quando i reparti non operano isolati ma in formazioni di più ampio respiro come compagnie, battaglioni o addirittura reggimenti.

In ogni modo quello che era stato era stato, e non potevano esserci più recriminazioni di alcun genere. E alla fin fine non c’era stata neppure la prova del nove per poter sapere se facendo diversamente avresti potuto ottenere risultati  diversi e soprattutto migliori.

E così i giorni passavano uno dopo l’altro senza poter sapere o comunque intravedere quello che sarebbe accaduto di lì a poco o di lì a molto. Purtroppo non si facevano illazioni, non c’erano dicerie di alcun genere, voci che facessero pensare ad una qualunque decisione sulla nostra sorte: il reparto non era stato più impegnato in nessun genere di lavoro e soltanto io continuavo a, cosa che, debbo dire la verità, non mi piaceva affatto. Avevo scelto quel compito soltanto per sottrarmi ad un lavoro ancora più ingrato, quello di provvedere alla sepoltura dei morti.

In quel frangente avevo avuto modo di assistere a sistemi punitivi che non sembravano pesanti dal punto di vista fisico ma che dal punto di vista psicologico erano quanto mai mortificanti e le umiliazioni non erano indifferenti fino al quasi annullamento della personalità.

Per gli americani le punizioni non comportavano differenze fra soldati semplici e graduati o addirittura ufficiali. Stavano tutti insieme in recinti di filo spinato guardati a vista da personale armato fino ai denti ed impegnati in un lavoro che io consideravo non solo mortificante ma addirittura alienante: venivano impegnati a gruppi di due o di tre a scavare fosse dalle precise dimensioni che venivano scrupolosamente controllate per la lunghezza, la larghezza e la profondità. Quando se ne provava la “congruità” si passava allo scavo di un’altra fossa , nelle immediate vicinanze, con le stesse misure e con la stessa animosità, per cui non era possibile fermarsi per un attimo di riposo, e questo per una intera giornata.

La futilità di questo lavoro e quindi la mortificante inutilità era determinata dal fatto che la risulta dello scavo di una fossa serviva soltanto a riempire quella che era stata finita appena un attimo prima. Era un lavoro fine a sé stesso, una umiliazione fine a se stessa, l’annullamento di ogni diritto della persona. Era quello il caso, e credo che sia l’unico, in cui il lavoro non nobiliti né l’uomo né sé stesso. La determinazione era sottile e perfida, fino a divenire perversa.

Gli americani sono fatti così: impiegano moltissimo tempo a precisare le regole ma una volta determinate pretendono che vengano rispettate ed in questo noi Italiani per assoluto contrasto amiamo dire che fatta la legge è facile trovare l’inganno, il ché può significare che ogni legge serve soltanto per legittimare l’inganno. Non è certamente così, ma la verità non è molto lontana.

La notizia che si doveva partire giunse come un fulmine a cielo sereno. Non potemmo sapere come quando e soprattutto per dove, ma nel nostro pensiero si insinuò l’idea che stessimo per iniziare il ritorno in patria.

Non avemmo nessuna conferma ma neppure nessuna smentita. Avemmo solo l’ordine di preparare armi e bagagli per destinazione ignota. Questa destinazione ignota convalidò in noi il pensiero del rientro in patria perché, diversamente, avremmo conosciuto anche la nuova destinazione.

(Fine quinta parte del II volume)

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