Culturain memoriam

Memorie – Volume secondo, sesta e ultima parte

Certo di fare cosa gradita, LoSpeakersCorner.eu ha pubblicato a puntate il secondo volume delle memorie di guerra del preside Sante Grillo, che durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era in Siclia, Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti.

Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.

                                                                         Sante Grillo

           Verso l’Italia

L’ordine di prepararci per la partenza era atteso, ma non sapevamo per dove e, quando ci si disse che stavamo per essere rimpatriati, ci fu uno sbalordimento generale. Lo desideravamo  con tutta l’anima ma non ci facevamo molte illusioni perché da questo punto di vista molte anzi moltissime erano state le volte che eravamo stati profondamente delusi. Stentavamo a crederci ed era comprensibile questo nostro stato d’animo.

Saremmo tornati veramente in patria ? Era veramente venuto il momento tanto atteso e desiderato?

Insomma, ci guardavamo in faccia l’un l’altro, ma non vi leggevi che lo stesso punto interrogativo. Era come se effettivamente lo avessimo stampato sulla fronte ben visibile ed a caratteri cubitali.

Con un pizzico di scetticismo nel cuore, cominciammo tuttavia a preparare veramente le nostre cose con una cura ed una attenzione che in altre occasioni non avevamo mai avuto. Era come se avessimo voluto fare un elenco preciso e dettagliato di tutte le cose che erano in nostro possesso.

Io, personalmente, avevo di che meravigliarmi, perché non avevo mai avuto tanto materiale, soprattutto se volevo rapportarlo al momento in cui mi sono trovato prigioniero di guerra quando per le vie polverose della Sicilia trascinavo le mie scarpe scalcagnate ed i miei pantaloni alla zuava sbrindellati e trattenuti a stento da un paio di calzettoni che non potevo tirare troppo verso l’alto per non trovarmi sprovvisto ai calcagni e che, per contro, non potevo tirare troppo verso il basso per non mostrare completamente nudi i polpacci ormai scoperti ed indifesi.

Non potevo neppure pensare al mio striminzito zainetto che serviva appena a tenere alzata la testa quel tanto necessario per non farmela andare a finire per terra quando volevo adagiarmi con l’intenzione di dormire. Non potevo neppure pensare a quello che conteneva perché non c’era assolutamente niente che potesse servirmi soprattutto in quelle condizioni in cui non avevi nulla ed avevi bisogno di tutto.

Non avevo neppure una borraccia, ragione per la quale soffrii la sete più tremenda della mia vita nel percorso da Priolo a Siracusa, dove alla fine ci imbarcammo per la Tunisia e dove, non posso fare a meno di ricordarlo, un fantaccino indiano scuro di pelle e molto simile nelle sembianze a Don Chisciotte, cercò di alleviare la mia sete con il contarmi uno ad uno gli acini di un grappolo di uva che aveva tolto dalle mani di un contadino ai margini della strada. Oggi, fra quei ricordi quello che prevale anche sulle sofferenze é la figura di quel soldatino dall’aria oltremodo severa e dai modi quanto mai generosi che addolcì ed alleviò la sofferenza indescrivibile sofferta in quel frangente per aver voluto aiutare un mio superiore ma anche compagno di sventura ancor più sofferente di me.

Comunque l’inventario delle mie cose fu attento e minuzioso anche e soprattutto perché in quel modo intendevo esorcizzare l’ansia che mi prendeva tutte le volte che non avevo niente altro da fare.

Passarono diversi giorni prima che gli americani si facessero vivi, poi, improvvisamente, come tante altre volte, ci giunse l’ordine della partenza. A ranghi compatti e zaino in spalla abbandonammo l’accantonamento per la stazione ferroviaria. In viso non traspariva alcuna emozione ma in quel tragitto neppure tanto lungo prevalse il silenzio: era una pausa fra la lunga, anzi lunghissima, speranza e, finalmente, la sua concretizzazione viva e reale.

Era anche quello un modo per esternare un sentimento rimasto inespresso per un grande spazio di tempo e che infine veniva fuori in maniera molto dignitosa. Allo scalo ferroviario vennero anche moltissime persone che non mi aspettavo di vedere, prima perché non ritenevo che potessero essere informate, poi perché escludevo che dei francesi volessero rilasciare, con quel gesto, una testimonianza ed una certificazione di amicizia, quando poi in ben altre occasioni erano stati quelli che avevano voluto umiliarci e mortificarci con atteggiamenti di vera e propria inimicizia.

Il treno partì quasi inaspettatamente, dapprima in maniera quasi insensibile poi sempre più velocemente in direzione ovest, verso punti di riferimento di gran lunga più graditi e sempre sperati.

Di quel viaggio di ritorno ricordo ben poco. Dalle parti di Lione in una grandiosa stazione di smistamento ebbi modo di vedere dei soldati russi che facevano invece il percorso inverso. Certamente venivano da diversissimi punti della Francia, dove erano stati in prigionia, e quindi avviati verso una libertà che come per noi era stata loro vietata per tanto tempo. Alcuni di loro si avvicinarono alla nostra tradotta e ci offrirono oggetti vari in cambio di moneta spicciola ed io scelsi fra i tanti oggetti una macchina fotografica a soffietto Agfa che presi in cambio di dieci franchi francesi. Come ricordo dei russi non ci fu male perché quella macchina non funzionò mai: era un bidone, diciamo meglio, per le proporzioni ridotte, un bidoncino.

Ricordo pochissimo di altro, evidentemente il mio pensiero era concentrato sul ritorno in patria di per sé e non riusciva a percepire nulla. Il grande verde dei boschi infiniti che ricordavo dal viaggio di andata verso Epinal era assolutamente scomparso perché non lo avevo più  recepito come non recepii più la grande bellezza della valle del Rodano percorsa in ugual misura soltanto qualche mese prima.

Quel che ricordo riguarda solo Marsiglia e la nostra permanenza in un grande parco sito nella sua immediata periferia. Vi trascorremmo ben due o addirittura tre settimane, adesso non ricordo bene. Qui tornammo a rivivere sotto le tende ed in mezzo agli alberi. Non ci era concesso di uscire ma noi trovammo il modo di farlo saltando il grande muro di cinta, tanto per l’uscita quanto per il rientro. Del resto Marsiglia valeva ben il sacrificio e l’eventuale pericolo di una punizione che ci facesse ritardare il ritorno.

Sapevamo però che ogni giorno partivano dei reparti e per noi occorreva solo la pazienza di aspettare. Avevamo tanto atteso quel momento che quei giorni non avrebbero dovuto pesarci molto, invece non fu così, perché purtroppo quel tempo ci sembrò eterno. A complicare un poco le cose ci fu anche la mancanza delle cucine che avrebbero dovuto fornirci almeno un pasto caldo. Per tanti giorni, ma che dico, per tutti i giorni della nostra sosta in quel di Marsiglia ci furono distribuite solo ed esclusivamente patate bollite.

Qualcuno ci malignò un poco sopra, ma non credo tanto che sia stata una vera e propria malignità perché, come si disse, le patate sarebbero servite a farci sembrare un pochino più grassi, cosa che si verificò puntualmente. Non potemmo mai più verificare che la cosa fosse stata fatta di proposito o meno ma ormai non valeva la pena accertarcene.

Marsiglia mi sembrò una bellissima città e ne potei apprezzare le bellezze tutte le volte che, come un monellaccio, saltavo al di là dell’ostacolo murario. Ma quante altre bellissime città avevo conosciuto ed apprezzato nella mia straordinaria patria. Forse non le avevo ben definite come lo facevo in quei momenti in cui non potevo fare ameno di trarne un paragone ed una comparazione in parallelo. Non nascondo che in quelle considerazioni l’affetto, la nostalgia, il desiderio del ritorno facessero la loro parte , ma secondo me, non erano affatto ingenerose.

L’imbarco

Finalmente arrivò l’ordine che aspettavamo ma questa volta non per reparto ma per specifici nominativi. Ci separammo con qualche turbamento dopo tanti anni di convivenza e di condivisione di eventi non sempre lieti. Così, insieme a tanti altri che non conoscevo fummo condotti su un grande spazio del porto di Marsiglia destinato all’imbarco e qui ad uno ad uno, dopo una semplice verifica esclusivamente nominativa, fummo imbarcati su una piccola nave da trasporto che era attraccata al molo.

Non so se per effetto del molo troppo grande o per altro motivo la nave mi sembrò in proporzione piccolissima. Forse quello era l’unico mezzo di cui poteva disporre l’Italia per il nostro rientro e con questa e per questa considerazione mi si rattristò il cuore.

Il grande porto di Marsiglia era completamente sgombro da ogni materiale semi affondato come mi era apparso quando dall’Algeria eravamo stati trasferiti in quel di Francia per il nostro lavoro di collaborazione.

L’operazione di imbarco fu veramente lentissima, e quando sembrò essere finita attendemmo ancora molto prima che la nave si staccasse dal molo. Forse quello che a noi, straordinariamente ansiosi di partire, sembrava un ingiustificato ritardo era stato dedicato alle consegne da parte americana del materiale umano alle autorità italiane.

Credo che, giuridicamente da parte americana, l’imbarco fosse considerato come la fine del nostro stato di prigionia ed infatti potevamo ritenere la tolda della nave italiana come  vero e proprio territorio italiano. Mi viene di fare tutti questi distinguo perché proprio in quei momenti di fastidio per la ritardata partenza mi passarono per la mente.

Poi il rollio della nave ci dette il segno della partenza ed a poco a poco il molo cominciò ad allontanarsi: eravamo ormai in un’altra realtà e la gioia purtroppo era frustrata da quella ignobile incertezza che mi aveva accompagnato per tutta la durata della prigionia e che ancora, pur in evidente contrasto con il fatto vero e reale della partenza, riusciva ad annebbiare ed a tarpare l’incipiente certezza della fine del grande martirio.

Uscendo dal porto il mare ci apparve come una immensa tavola azzurra assolutamente diverso da quando per un percorso inverso eravamo stati trasportati dall’Algeria alla Francia. Allora le immense onde del golfo del Leone ci avevano fatto temere di peggio.

Venne la notte ed il rumore dei motori ci accompagnò per tutto il tempo ma questa volta ci sembrò una musica dolce, perfettamente interpretativa del nostro animo che sembrava illanguidirsi sempre più momento dopo momento.

L’alba mi trovò perfettamente sveglio e già pronto a guardare oltre l’orizzonte le linee di una terra che purtroppo sembrava ancora lontana.

Infine, dapprima timidamente, quindi in modo più preciso e delineato, vedemmo uscire come per miracolo da una foschia sempre meno fitta l’azzurro ora debole e ora finalmente più intenso dei contorni ancora indefiniti di una terra ormai non tanto lontana. Stavamo avvicinandoci ma, ahimé, con la lentezza di una lumaca alle Bocche di Bonifacio: da una parte la Corsica e dall’altra, a destra, la Sardegna, tutte due bellissime, indiscutibilmente bellissime ma ancora lontane.

L’avvistamento, l’attraversamento e quindi il successivo allontanamento dalle Bocche di Bonifacio fu un martirio di lungaggine: solo il lento mormorio dei motori ci dava la sensazione del movimento. Forse, come succede per le macchine quando per un motivo o per un altro si fermano ci veniva il desiderio di scendere e spingerla verso la nostra terra.

Era mai possibile che la nave non lasciasse una scia visibile? Ma c’erano o no le eliche che giravano per spingerla in avanti ? Dio, com’era lenta, sembrava ferma, addirittura!

E così con l’interminabile trac, trac, trac dei motori passò un’altra nottata tra i pensieri meno assordanti del rumore delle macchine ma, indiscutibilmente più intensi e forse anche più fantasiosi, perché vagavano nel buio più assoluto di una realtà completamente sconosciuta.

Che cosa avremmo trovato in Italia? Su questo punto anche quando non volevi soffermarti la mente tornava insistentemente rimuginare mille e mille interrogativi. Poi veniva la consolazione: non poteva essere peggio di quello che in quel momento stavamo per lasciare. Eravamo allenatissimi a vivere ed a vivere a qualunque costo, anche senza cibo, senza la minima libertà, ed ancora peggio senza speranza perché senza “domani”.

Alle prime luci dell’alba, un’alba straordinariamente chiara, con qualche traccia minima di foschia, l’oriente ci apparve luminoso e sfavillante con un disegno e dei contorni inconfondibili, quelli ineguagliabili del Vesuvio con uno straccio di fumo che si levava verso l’alto come per confermare che quella sagoma era proprio la sua. Era la firma di Napoli che si dichiarava a noi come per il più grande degli amori, ricambiato dalla nostra immensa commozione e dalle lagrime che ormai senza vergogna sgorgavano copiose e scivolavano lungo le gote come per lavarle definitivamente da ogni impurità accumulata nel tempo.

Sul molo quando stavamo per prepararci a raggiungere il luogo di residenza della commissione da cui avremmo dovuto essere interrogati vidi un uomo in divisa di carabiniere che si avvicinava a gran passi: era mio fratello. Ero sorpreso e felice ed in seguito volendo sapere, ho chiesto, più e più volte, come avesse potuto essere informato del mio rientro in patria, ma non ebbi mai modo di saperlo. La risposta era un sorriso, ora ironico ora canzonatorio ma sempre straordinariamente affettuoso: la verità non la seppi mai. Era un carabiniere, di fuori per la divisa e di dentro per la grandezza del suo animo.

Era il 17 novembre del 1945 ed ero lì, incapace di parlare, di esternare qualsiasi sentimento, di esprimere quello che invece bolliva nel mio cuore in un frangente irripetibile dopo essere partito da casa il 10 giugno del 1940, un’eternità.

Appendice

Il Vesuvio 

Quando l’immenso arco dell’orizzonte si rischiara per il diradarsi della foschia ed in alto il cielo si tinge di un azzurro più intenso, la visione del golfo di Napoli acquista una bellezza che nessun uomo riuscirebbe a descrivere. Ho sentito un napoletano, un napoletano “verace”, come qui si suol dire, affermare che Iddio ha voluto donare a questa regione un angolo di paradiso. Era entusiasta di questa sua terra e nel descriverla gli occhi gli si inumidivano di lagrime per l’intensa commozione, e la sua parola era tanto calda ed appassionata che anch’io me ne sentivo contagiato.

Napoli infatti è come una malattia che una volta entrata nel sangue non può essere più guarita. Chi, infatti, imprimerà nella sua memoria gli incanti e la dolcezza di questa terra con i suoi colori e con i suoi profumi non riuscirà mai a dimenticarla e si sentirà malinconico se ne sarà lontano.

Allora risuoneranno nell’animo le inimitabili melodie di Santa Lucia luntana, di ‘O sole mio, di Terra d’ammore ed in qualunque parte del mondo ci si sentirà in esilio.

Napule è bella assaie!: è l’esclamazione dei Napoletani che vogliono esprimere l’affetto per la propria città: non hanno tutti i torti, io direi che Napoli è un incanto e un sogno.

Ricordo ancora quando vi giunsi dal mare con una delle pochissime navi rimaste all’Italia  dopo le insidie della guerra. Il primo lembo dell’Italia che vedevo dopo ventotto lunghissimi mesi di assenza forzata dalla Patria, era Napoli, la più bella città del mondo sul più incantevole golfo del mondo. Da allora vi sono rimasto come attratto da una forza misteriosa.

Infatti ha esercitato sul mio spirito lo stesso invito delle sirene sui naviganti. Lentamente vedevo sfilare sotto i miei occhi spalancati dalla meraviglia e col cuore palpitante per l’ansia Procida e Ischia mentre sulla destra Capri si stagliava netta con la sua sagoma inconfondibile. Il golfo splendente di sole e d’azzurro mi si offriva come la prima immagine della Patria: immagine cara ed ardentemente desiderata!

La città, qua e là lievemente velata di foschia, si mostrava bianca e luccicante per miriade di riflessi come una perla in un’immensa conchiglia marina. E su tutto sovrastava il Vesuvio con i suoi agili contorni, in compagnia dei lineamenti frastagliati del monte Somma. Lo vedevo per la prima volta dal mare e sembrava ancor più imponente col suo cono quasi perfetto. Un esile pennacchio di fumo si levava ancora verso l’alto a testimonianza di trascorsi gorgoglii di fuoco.

Oggi il fumo non c’è più e i napoletani guardano alla cima del monte con malcelato timore. Il Vesuvio non è un gigante buono e forse va tramando qualcosa nelle viscere tormentate dal fuoco: può darsi che ribolla di rabbia e che in cuor suo mediti rivincite di non si sa bene quali torti ricevuti.

Sono difficili da trattarsi questi giganti rabboniti: vogliono essere blanditi e tuttavia borbottano ingiurie che senti salire dal più profondo del petto. Malgrado ciò, malgrado il timore che incute, i napoletani gli vogliono bene e se per un caso, dotato di virtù magiche, potessi con un colpo di spugna cancellare, come da una tela fresca di colori, la sagoma del Vesuvio insorgerebbero all’unisono per riaverlo perché non possono stare senza il loro “amato” nemico. È come se da un’immensa collana di gemme togliessi quella più preziosa e pensassi di sostituirne i legami in fili d’oro con un vecchio filo di spago. Per fortuna non esiste nessun mago che possa commettere un dispetto del genere e pertanto, per l’orgoglio dei napoletani, vedremo ancora il Vesuvio al suo posto, fumante o no, ma sempre al suo posto.

Se ti inerpichi su per le sue pendici, lo spettacolo è veramente indimenticabile: hai la precisa sensazione della lotta dell’uomo per sopravvivere e delle forze incommensurabili della natura quando insorge e s’infuria. Il tormento della lava cristallizzata in un groviglio di massi che si sono accavallati l’uno sull’altro, ti pone dinanzi ad immagini da oltretomba dantesco, orrido nel colore e nella forma.

Il magma incandescente, nel solidificarsi, ha scavato qua voragini enormi, si è sollevato là in fantasmagorici torrioni di pietra e gigantesche rughe di infuocato corruccio che mostrano il nervosismo di una forza che agisce a sussulti e che non ubbidisce se non alla sua volontà di distruggere o di cambiare il volto alle cose.

Se cerchi di abbracciarne con lo sguardo l’entità, provi la sensazione del grandioso ed allora ti senti piccolo ed impotente di fronte ad una così evidente testimonianza di forza. Il biancore di qualche casa contadina, qualche ciuffo di verde qua e là incastonato nella caotica superficie della massa lavica indicano come l’uomo crede ancora nella generosità del vulcano e con una costanza ed una fiducia ammirevoli va aggrappandosi ancora alla speranza di una definitiva calma per fermare la zolla, per imprigionarla ed avvinghiarla fra le radici degli alberi.

E così sorge la prima oasi che poi si allarga e si amplia. Tu la guardi meravigliato perché, in definitiva, sai di qual miracolo si tratti: è il miracolo della volontà, della forza delle braccia, del desiderio di sopravvivere, dell’indomabile caparbietà posta nel cercare di vincere la forza disgregatrice della natura.

Così rinasce nel tuo animo la fiducia nell’uomo che è vinto e risorge, che sembra distrutto e che vedi far capolino dalle rovine con la volontà di ricostruire e di ricominciare subito, per timore che non faccia a tempo di fornire ai propri figli l’opera compiuta.

Se poi, giunto sulla costa più alta, ti volgi indietro e guardi il cielo e il mare non puoi trattenere il fiato per la meraviglia. Allora ti sovviene dell’angolo di paradiso, ti rammenti della grandiosità di Dio che ha voluto essere così generoso di bellezza e di incanto ed in cuor tuo lo ringrazi per averti concesso uno spettacolo di così grande splendore. 

(Fine sesta e ultima parte del II volume)

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