Cultura

Nella magica Napoli la realtà si fonde col mito

di Michele Di Iorio

Spesso i miti nascono da realtà che crescono nell’immaginario collettivo fino a diventare situazioni e accadimenti fantastici, e Napoli e le sue tante storie non potevano certo fare eccezione.

Una leggenda molto popolare nella città delle sirene è quella del prodigioso sommozzatore Colapesce o Nicola Pesce, riportata nel libro di Benedetto Croce Storie e leggende napoletane. Il mito di questa creatura metà uomo e metà pesce era stato citato anche nel testo De nugis curialium, una antologia di racconti, aneddoti e varie notizie, del cronista medioevale gallese Walter Maps, vissuto nel XII secolo, in cui si parla di Nicolas the fish, ovvero Nicola Pesce.

Maps raccolse le testimonianze di fra Salimbene e fra Pipino che affermavano che quest’uomo era di origine pugliese e visse a Messina. Pare s’immergesse in mare tra Scilla e Cariddi per recuperare antichi oggetti perduti. La tradizione popolare siciliana vuole che Colapisci in una delle sue immersioni scoprisse che l’isola poggiava su tre colonne.

Racconti su questa figura si trovano anche in testi trecenteschi di Fazio degli Uberti e Ricobaldo da Ferrara e nel più tardo testo di Gervasius von Tibury.

Il giovane pescatore Nicola Pesce aveva il dono – o la capacità – di resistere sott’acqua senza respirare per un tempo lunghissimo. Si racconta si facesse ingoiare da grossi pesci e si lasciasse trasportare fin dove voleva, e alla fine del percorso li sventrasse dall’interno con il suo enorme coltellaccio. Inoltre si narra che mangiasse particolari alghe marine che qualche modo riuscivano a rallentare il ritmo del respiro, come la tecnica Yoga usata da Jacques Mayol nelle sue immersioni in apnea.

Trasferitosi a Napoli a seguito dei Normanni, Nicola Pesce pare fosse impiegato come sommozzatore militare, e poi anche dai successivi dominatori svevi.

Si dice vivesse in un basso del palazzo dei nobili de’ Gennaro nel fondaco di Porto, vicino via Sedile di Porto ad angolo con via Mezzocannone. Sulla facciata prospiciente su via Mezzocannone  si vede ancora oggi la copia di un bassorilievo – l’orignale si trova al Museo della Certosa di San Martino –  che raffigura il villoso dio cacciatore Orione che brandisce un’arma, simbolo del Sedile di Porto. La tradizione popolare vuole invece che raffiguri Colapesce, coperto di squame e con il suo coltellaccio.

 

A Napoli il mito di Colapesce si riallaccia alla setta misterica romana dei Figli di Nettuno. Gli iniziati di questa confraternita erano uomini, ovvero sommozzatori votati al dio del mare. In effetti cercavano tesori perduti sotto il mare, restando a lungo in apnea sotto la superficie. Forse i più antichi indossavano una sorta di muta subacquea fatta con pelle di pesce.

 

La figura di Colapesce è dunque solo in parte mitologica: presso molte culture  sia orientali che occidentali sono sempre esistite persone capaci di resistere a lungo sott’acqua, come i pescatori di perle e di coralli.

Si racconta che già in epoca greca a Napoli, tra Miseno e Posillipo, a largo dell’isola della Gaiola, si celebravano strani riti misterici con congiungimenti tra uomini e sirenoidi, o meglio le foche Monaca, che vivevano numerose sulle coste. La leggenda narra che da questi amplessi nascessero i sirenei o tritoni e le sirene.

Queste storie sono penetrate nel tessuto magico di Napoli: i Figli di Nettuno discendenti da Nicola Pesce pare che continuassero nei secoli la loro “missione”. Anche nell’ultimo dopoguerra: nel 1943 sommozzatori napoletani si immergevano per recuperare relitti di guerra, ferro e antichità. Pare fosse una confraternita di 12 uomini che si riuniva in una grotta di Posillipo.  I giovani sirenei o uomini pesce ritrovavano tesori per collezionisti americani e tedeschi. Di giorno si confondevano tra i pescatori e marinai di Santa Lucia, Capri, Ischia, Procida, Pozzuoli, del Borgo Marinaro.

Qualcuno racconta  ancora di 36 bellissimi sirenei che quando c’era la luna piena a mezzanotte si trasformavano e nuotavano come i pesci, per poi tornare  dal loro misterioso lavoro all’alba, di nuovo completamente umani, sulle spiagge tra Mergellina e il Borgo Marinaro, accolti dalle loro donne, dette Figlie di Nettuno…

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