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COVID-19, il punto sulle terapie

Il nostro medico Carlo Alfaro fa il punto sulle tante terapie che si stanno sperimentando per curare l’epidemia SARS-CoV-2: bisogna ancora trovare quella che ne neutralizzi la potenziale letalità

Il dottor Alfaro è Dirigente Medico di Pediatria presso gli Ospedali Riuniti Stabiesi, componente  della Consulta Sanità del Comune di Sorrento, Consigliere Nazionale di SIMA e Responsabile del Settore Medicina e Chirurgia dell’Associazione Scientificò-culturale SLAM

Per convivere senza troppa ansia col SARS-CoV-2 sarà indispensabile disporre di un vaccino su larga scala o di una terapia efficace che ne neutralizzi la potenziale letalità. Sul piano della terapia, a parte il trattamento di base che si fonda su riposo a casa, trattamento sintomatico con paracetamolo per febbre e dolori o sedativi per la tosse, idratazione e nutrizione adeguate, supporto respiratorio nei pazienti che ne sviluppano il bisogno, non si dispone al momento di indicazioni definitive sui farmaci da usare contro il virus, che sono impiegati con schemi e protocolli sviluppati in ambito di sperimentazioni autorizzate dalle autorità regolatorie.

Il lavoro dei ricercatori e clinici di tutto il mondo per trovare la cura è immane. Sul sito ClinicalTrials.gov sono registrati a fine aprile 410 studi, nel database dell’Oms 590. In Europa, sull’EU Clinical trial register, 48.

L’Oms ha avviato il programma Solidarity, che raccoglie i protocolli sperimentali di oltre 70 Paesi, mentre nel Regno Unito lo studio Recovery è attivo su tutto il territorio nazionale.

In Italia, su quasi 120 proposte portate all’attenzione dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa), sono 20 le sperimentazioni cliniche autorizzate, ma il numero aumenta di giorno in giorno e molti altri studi sono in attesa di completare l’iter di approvazione dal Comitato Etico Unico e dalla Commissione Tecnico Scientifica dell’Agenzia.

La conoscenza che si è sviluppata via via sulla fisiopatologia della malattia ha consentito di definire meglio nel tempo il protocollo terapeutico da adottare. L’orientamento attuale è di modulare l’intervento farmacologico in base alla fase di evoluzione della malattia.

Nella fase iniziale, o Fase 1 (primi 7-10 giorni), che corrisponde alla replicazione virale ed è caratterizzata da sintomi simil-influenzali (esempio febbre, tosse, malessere, diarrea) va iniziata precocemente la cura già a domicilio con farmaci che riducono la carica del virus interferendo col suo ciclo vitale. La risposta immunitaria in questo stadio non va bloccata ma “aiutata”, eventualmente anche con plasma da convalescenti.

Se l’infezione non viene dominata in questa fase, si entra nella Fase 2, in cui il virus invade il polmone (polmonite interstiziale), con possibili dispnea e mancanza di ossigeno, che richiedono ricovero e ossigenoterapia. Sono condizioni in cui si scatena la “tempesta delle citochine” come iper-risposta dell’organismo, che può danneggiare tutti gli organi: in questo momento occorre associare agli anti-virali (da continuare per evitare il rebound virale, che sostiene la iper-reazione dell’ospite) gli anti-infiammatori ed eventuale plasma da convalescenti, per scongiurare la Fase 3, in cui l’infiammazione sistemica porta a sindrome da distress respiratorio, shock e disfunzione multi-organo.

Poiché nella fisiopatologia dell’aggravamento clinico svolge un ruolo fondamentale il danno vascolare, determinato da vari meccanismi (infiammazione dell’endotelio vascolare per infezione diretta del virus, vasculite secondaria alla tempesta infiammatoria, ipossia) serve anche una terapia anticoagulante.

Come terapie di prima linea contro il COVID-19 figurano CLOROCHINA e IDROSSI-CLOROCHINA. Idrossiclorochina (Plaquenil) è più attiva della clorochina nella cura del COVID-19 e meno tossica. Le clorochine sono note da oltre 70 anni e sono utilizzate contro la malaria e come anti-reumatici in patologie come l’artrite reumatoide e il LES. Nel 2005 ricercatori statunitensi ne avevano documentato in laboratorio una forte attività contro il Coronavirus responsabile della SARS, ma siccome questa malattia era sparita nel 2004, le ricerche non erano andate avanti.

Diversi sono i meccanismi d’azione ipotizzati contro SARS-CoV-2:

  • interferenza con ACE2, recettore di superficie per la proteina Spike attraverso cui il virus “arpiona” la cellula; incremento del Ph negli “endosomi”, che sono organuli nei quali il virus viene inglobato all’interno della cellula che infetta (il Ph alto li rende inospitali per la sua replicazione);
  • inibizione della RNA polimerasi virale, necessaria alla sua replicazione, per eccesso di ingresso di Zinco nella cellula;
  • attività anti-trombotica, immunomodulante e anti-infiammatoria. Assunte per via orale, le clorochine hanno una buona distribuzione nei tessuti del corpo. Già usate con successo nei trial in Cina e Corea del Sud, questi farmaci sono indicati nelle fasi precoci di malattia, alla conferma diagnostica (come si sta sperimentando nello studio “Hydro-Stop” su idrossiclorochina attualmente in corso in Italia), e secondo alcuni protocolli cinesi prima ancora del tampone, anche nel solo ragionevole sospetto clinico, o addirittura ad uso profilattico, una dose una volta alla settimana, per gli individui a maggior rischio come operatori sanitari (come è stato usato in India nei reparti COVID) e contatti stretti di ammalati (l’Aifa ha varato in tal senso lo studio “Protect” per valutare efficacia e sicurezza di idrossiclorochina sia nella prevenzione dell’infezione nei soggetti esposti, come gli operatori sanitari, che nel trattamento precoce).

In molti schemi idrossiclorochina viene associata all’antibiotico macrolide AZITROMICINA per supposto effetto sinergico, ma con rischio di aumento di cardio-tossicità.  Infatti Aifa sottolinea al riguardo che la mancanza di un solido razionale e l’assenza di prove di efficacia non consente di raccomandare l’utilizzo dell’azitromicina nel trattamento di pazienti COVID-19, da sola o associata ad altri farmaci, con particolare riferimento all’idrossiclorochina, al di fuori di eventuali sovrapposizioni batteriche, e che l’uso dell’azitromicina per indicazioni diverse da quelle registrate può essere considerato esclusivamente nell’ambito di studi clinici randomizzati.

Per questo Aifa ha autorizzato uno studio comparativo su efficacia e sicurezza dell’associazione idrossiclorochina- azitromicina rispetto a idrossiclorochina da sola nei pazienti con polmonite da COVID-19 che non necessitino di ventilazione meccanica.

Inoltre, Aifa il 29 aprile, aggiornando le linee di indirizzo per l’uso terapeutico dell’idrossiclorochina, ha affermato che va presa in considerazione sia nei pazienti di minore gravità gestiti a domicilio sia nei pazienti ospedalizzati, raccomandando di non associarla con altri anti-virali come lopinavir/ritonavir o darunavir/cobicistat per un rischio di potenziamento degli effetti tossici.

Gli effetti collaterali delle clorochine contemplano: cardiotossicità e in particolare prolungamento QT (rischio aumentato dall’assunzione con macrolide o alcuni anti-aritmici), ipoglicemia, emolisi (in caso di carenza di G6PD, il favismo), retinopatia, dispepsia, danni al fegato, ai reni, al sistema nervoso. Sono contrindicate nella porfiria. Uno studio clinico randomizzato, in doppio cieco in Brasile sull’uso di clorochina ad alte dosi nel COVID-19, è stato sospeso per eccesso di effetti collaterali cardiovascolari, anche gravi, nel gruppo di pazienti che prendeva il farmaco (aumento della mortalità del 17%).

Lo studio ha il limite di aver utilizzato clorochina e non la più tollerata idrossiclorochina, dosi eccessive e in fase 3 della malattia (danno polmonare e multi-organo), mentre la idrossiclorochina va preferita nella fase 1 della malattia (replicazione virale) e prima dell’inizio della fase 2 (risposta infiammatoria).

Una meta analisi di 86 studi su Drug saf evidenzia che gli effetti avversi sul cuore dipendono da trattamenti di durata più lunga e dosi più elevate di quelle usate a domicilio per il COVID-19 o per associazioni di farmaci.

L’Ema (Ente regolatorio europeo) sottolinea che al momento i dati clinici sono ancora limitati per definire effetti benefici e sicurezza delle clorochine contro il COVID-19. Anche l’Oms raccomanda attenzione alle turbe del ritmo cardiaco segnalate in pazienti in pazienti con COVID-19 trattati con idrossiclorochina o clorochina, specialmente in associazione con azitromicina e altri medicinali che prolungano il QT, e in pazienti con insufficienza renale. In uno studio pubblicato su Faseb Journal, gli autori allarmano anche sulla potente azione immunosoppressiva di questi farmaci, che è alla base del loro utilizzo nell’artrite reumatoide e nel lupus, che potrebbe contrastare le difese immunitarie innate e adattative contro Sars-CoV-2.

Poi c’è il grande capitolo degli ANTI-VIRALI già sperimentati per altre infezioni. È dimostrato che l’inizio precoce della terapia antivirale possa ridurre le complicanze gravi della malattia (soprattutto insufficienza respiratoria acuta). Grandi speranze sono riversate sul REMDESIVIR. Si tratta di un analogo nucleotidico che viene incorporato dal virus nella sua catena di RNA scambiandolo per una delle basi azotate che la compongono, ma poi blocca l’enzima virale chiave per la replicazione, la polimerasi.

Il farmaco venne sviluppato nel 2014 contro il virus Ebola ed è stato sperimentato anche contro la SARS e MERS. Trial con il farmaco in corso in USA ed Europa sembrano incoraggianti, ma uno studio su Lancet mitiga gli entusiasmi.

Un altro farmaco molto impiegato nel COVID-19 è il LOPINAVIR/RITONAVIR (Kaletra), inibitore delle proteasi virali. Il Lopinavir è stato sviluppato a partire dal 2000 per inibire la proteasi dell’HIV. Poiché viene rapidamente scomposto dalle proteasi delle cellule umane, viene somministrato con basse concentrazioni di Ritonavir, che gli consente di persistere più a lungo. È stato testato in passato su pazienti con SARS e MERS. Uno studio cinese pubblicato sul New England Journal of Medicine, non ha dato buoni risultati in pazienti gravi, per cui andrebbe utilizzato più precocemente.

DARUNAVIR/ RITONAVIR e DARUNAVIR/COBICISTAT (Rezolsta) sono alternative terapeutiche al Lopinavir/Ritonavir, mentre RIBAVIRINA, inibitore della guanina, è stata sperimentata in associazione.

Studi in corso anche su FAVIPIRAVIR (Avigan), molecola in grado di inibire l’azione della RNA polimerasi virale. Autorizzato in  Giappone dal 2014 per il trattamento di forme di influenza, è stato utilizzato in pazienti con febbre gialla, virus West Nile, Ebola, e in Cina è stato sperimentato durante l’epidemia da COVID-19 nelle forme di polmonite lieve.

In Italia l’Aifa ha autorizzato uno studio multicentrico sul farmaco che divenne popolare in Italia a seguito di un video postato sui social da un italiano in Giappone il 21 marzo scorso che raccontava del suo uso diffuso nel Paese. Il rischio maggiore è la comparsa di malformazioni fetali se assunto in gravidanza.

Deludente invece UMIFENOVIR (Arbidol), che era stato sperimentato in Russia contro l’influenza.

Un potenziale farmaco contro il COVID-19 è l’INTERFERONE, inibitore della replicazione virale e immuno-modulatore, usato contro la Sclerosi multipla e già provato durante l’epidemia di SARS e MERS, che stanno somministrando in Australia a pazienti infettati e ai loro contatti, per ridurre lo spargimento virale.

Le TERAPIE ANTI-INFIAMMATORIE intervengono nella Fase 2, in associazione alla terapia antivirale, per contrastare la “tempesta di citochine”, che determina un drammatico peggioramento del quadro clinico, onde evitare che il paziente vada in insufficienza respiratoria.

Alcuni farmaci di questa categoria sono anticorpi monoclonali diretti contro l’interleuchina 6 (IL-6), che sono in corso di sperimentazione in Italia, sembra con risultati incoraggianti, in pazienti COVID con polmoniti gravi:

  • TOCILIZUMAB, usato da diversi anni per l’artrite reumatoide e l’arterite di Horton, e in oncologia per bloccare la sindrome da rilascio di citochine dopo una terapia CAR-T;
  • SARILUMAB, usato contro l’artrite reumatoide;
  • SILTUXIMAB (Sylvant), usato nella malattia di Castleman (iperplasia benigna multicentrica delle cellule linfonodali).

Altri farmaci ad attività anti-infiammatoria promettenti contro il COVID-19, e in corso di sperimentazione in Italia, sono quelli rivolti contro Interleuchina-1(IL-1): sembrerebbero avere buon effetto immuno-modulante sulla risposta infiammatoria con minore tossicità degli anti-IL-6. Tra questi l’anticorpo monoclonale CANKINUMAB, usato per la febbre periodica autoinfiammatoria, la malattia di Still e l’artrite gottosa, e ANAKINRA, antagonista del recettore per l’IL-1 prodotto in cellule di E. coli mediante la tecnologia del DNA ricombinante, utilizzata in campo reumatologico.

Sempre per la loro attività-anti-infiammatoria sono sperimentati nei pazienti COVID in Fase 2 gli anticorpi monoclonali: EMAPALUMAB, diretto contro interferone gamma, usato per il trattamento della linfoistiocitosi primaria refrattaria, ricorrente e progressiva; ECULIZUMAB (Soliris), che si lega alla proteina C5 del complemento ed è usato nella sindrome emolitico-uremica atipica e nella emoglobinuria parossistica notturna, PAMREVLUMAB, che inibisce il Fattore di crescita del tessuto connettivo ed è impiegato contro la fibrosi polmonare cronica.

Sempre come anti-infiammatori si stanno sperimentando nel COVID-19 gli inibitori selettivi delle JAK (Janus Associated Kinases), piccole proteine coinvolte nella sintesi delle citochine infiammatorie, cui è ascritta anche attività anti-virale: BARICITINIB, impiegato nell’artrite reumatoide, e RUXOLITINIB, usato contro la “malattia del trapianto contro l’ospite”, la policitemia vera e la mielofibrosi.

Simile a questi OPAGANIB, inibitore selettivo del mediatore Sfingosina kinasi-2 (SK2), oltre che antivirale, in sperimentazione in Israele. Farmaci anti-infiammatori per eccellenza, infine, i CORTICOSTEROIDI nel COVID-19 registrano pareri discordanti. L’impiego del cortisonici è molto dibattuto. Alcuni protocolli suggeriscono di iniziarli a basso dosaggio  durante la Fase 2 e mantenerli, altri consigliano di utilizzarli ad alti dosaggi in vena in caso di distress respiratorio. In Italia si sta sperimentando il Metilprednisolone nel prevenire il peggioramento della funzione respiratoria in pazienti con COVID-19 moderata.

Un ruolo emergente nella terapia del COVID-19 si attribuisce alle EPARINE a basso peso molecolare. Il loro utilizzo si fonda su duplice meccanismo di azione: azione anti-virale diretta per somiglianza della molecola di eparina con i recettori del virus sulle cellule endoteliali e attività antitrombotica che contrasta i fenomeni tromboembolici che si instaurano nella fase vasculitica del COVID-19 per attivazione incontrollata della coagulazione, conseguentemente alla iper-infiammazione.

L’Aifa raccomanda prudenza nell’impiego fino a quando non saranno noti i risultati dello studio INHIXACOVID19- che valuta sicurezza ed efficacia dell’eparina a basso peso molecolare nel trattamento dei pazienti con quadro clinico moderato o severo di COVID-19. Attualmente se ne suggerisce da alcuni studiosi un uso precoce nella malattia o anche in prevenzione, benchè sembra che nei pazienti che non mostrano iper-coagulabilità la somministrazione di eparina non apporterebbe benefici, ma potrebbe anche indurre un peggioramento.

La PLASMA-TERAPIA (terapia con plasma iperimmune dei pazienti guariti con alti livelli di anticorpi) è una linea di ricerca sviluppata in Cina su pazienti ricoverati in terapia intensiva, attualmente in sperimentazione in USA e in Italia (capofila Policlinico San Matteo di Pavia e ospedale Carlo Poma di Mantova) con risultati promettenti.

La donazione di plasma contenente delle immunoglobuline contro un determinato patogeno è una procedura che si conosce da circa un secolo ed è stata messa in atto per far fronte a diverse malattie, tra cui Ebola, SARS, MERS. Sul plasma dei guariti ottenuto per plasmaferesi viene valutato il titolo anticorpale neutralizzante tramite il “test di neutralizzazione virale” per SARS-CoV-2 in vitro, poiché solo circa la metà dei guariti ha nel proprio plasma la quantità di anticorpi neutralizzanti necessaria a curare un altro soggetto ammalato.

La terapia con plasma si sta sperimentando su più fasi di evoluzione della malattia, sia le più gravi, in cui il paziente è sottoposto a cure intensivistiche, sia nelle fasi precedenti per prevenire l’aggravamento, sia come profilassi negli esposti, come il personale sanitario. Attraverso i test sierologici di tipo quantitativo, è possibile titolare la quantità di anticorpi prodotti dal soggetto e individuarne la potenzialità come donatore. Istituto Superiore di Sanità e Aifa sono impegnati attualmente nello sviluppo di uno studio nazionale per valutare l’efficacia e il ruolo del plasma ottenuto da pazienti guariti nelle polmoniti da COVID-19.

Strada parallela a questa, è utilizzare il plasma dei guariti per ottenerne le IMMUNOGLOBULINE specifiche contro SARS-CoV-2 e riprodurle in laboratorio su scala industriale. Questi ANTICORPI MONOCLONALI UMANI DA PLASMA potranno essere utilizzati a scopo profilattico/terapeutico e come esca molecolare per l’identificazione di nuovi antigeni per lo sviluppo di vaccini. Gli anticorpi monoclonali umani specifici nel caso dell’infezione da Ebola hanno rappresentato luna valida opzione di terapia.

È allo studio anche un ANTICORPO MONOCLONALE SINTETICO progettato espressamente contro la glico-proteina “Spike” che il virus utilizza per aggredire le cellule umane.

Tanti ancora i farmaci che si stanno sperimentando contro il COVID-19.

SELINEXOR, usato contro casi resistenti di mieloma multiplo, induce la morte (apoptosi) delle cellule tumorali, e sembrerebbe indurla anche nelle cellule infettate dal SARS-CoV-2 per cui sono in corso sperimentazioni in pazienti COVID gravi.

IVERMECTINA, impiegato come antiparassitario contro la scabbia e già utilizzato contro i virus Hiv, Zika, Dengue, West Nile e influenzali, in studi in Australia sarebbe in grado di inibire rapidamente la carica virale del SARS-CoV-2 in colture cellulari, nel giro di 48 ore.

CAMOSTAT MESILATO, farmaco con proprietà anticoagulanti, antivirali e anticancro utilizzato in Giappone per il trattamento della pancreatite acuta e altre condizioni infiammatorie, in vitro appare in grado di inibire il legame tra Spike e le cellule umane, agendo sul recettore TMPRSS2. Sono previsti degli studi clinici per verificare l’effetto sui pazienti: ne è partito uno in Danimarca.

NUOVE PROTEINE ANTI-VIRALI: sono allo studio, per ora solo in vitro, quattro proteine sintetiche, con azione anti-virale specifica contro SARS-CoV-2.

CELLULE STAMINALI: in Usa è in corso una terapia sperimentale contro il COVID-19 a base di cellule staminali raccolte dalla placenta con attività natural killer.

ATTIVATORE DEL PLASMINOGENO TISSUTALE (Tpa): comunemente somministrato alle vittime di infarto e ictus, secondo uno studio pubblicato sul Journal of trauma and Acute Care Surgery, il farmaco sarebbe utile nei malati di COVID-19 in cui non sia disponibile un ventilatore o in cui il trattamento con tale dispositivo non dia i risultati sperati. Il suo razionale d’impiego nasce dal fatto che nella patogenesi della grave insufficienza respiratoria gioca un ruolo fondamentale la formazione nei polmoni di micro-coaguli che impediscono al sangue di raggiungere gli spazi aerei degli alveoli, dissolti dal Tpa.

COLCHICINA: Aifa ha approvato uno studio multicentrico che valuta l’efficacia e la sicurezza di Colchicina, un vecchio farmaco utilizzato nella gotta, in pazienti affetti da COVID-19 con deficit di saturazione dell’ossigeno ma per i quali però non è ancora necessario il trattamento in terapia intensiva. La colchicina può avere azione antivirale, ma contemporaneamente è in grado di bloccare la risposta infiammatoria del sistema immunitario senza però causare una immunodepressione.

VACCINO CONTRO LA TUBERCOLOSI COL BACILLO CALMETTE-GUÉRIN (BCG): confrontando i dati su vaccinazione BCG e prevalenza e mortalità da COVID-19 in 199 Paesi, si è trovato un effetto protettivo significativo della vaccinazione con BCG sulla diffusione complessiva del virus, ma non sul rapporto mortalità/casi. Il vaccino BCG contiene un ceppo vivo ma indebolito di batteri della tubercolosi che provoca una risposta immunitaria adattativa ma può anche rafforzare il sistema immunitario innato, cioè delle difese di prima linea.

La ricerca di farmaci efficaci contro l’infezione da COVID-19 e le sue complicanze continua spasmodica, sull’onda della necessità urgente di salvare vite umane in tutto il mondo. Oltre al lavoro indefesso nei laboratori e nelle corsie, persino l’intelligenza artificiale è scesa in campo in questa corsa contro il tempo, grazie allo sviluppo di un software capace di analizzare 1,4 miliardi di molecole per dirci se sono efficaci contro le proteine chiave per lo sviluppo del SARS-CoV-2.

Il mondo non può aspettare: 4 milioni di contagiati e 280mila decessi sono un prezzo terrificante che non vogliamo veder aumentare di più.

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