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Il Racconto, Alarico Re dei Goti

Il racconto “Alarico Re dei Goti” è tratto dal libro dell’autore “La macchina anatomica”, Graus Editore, appena uscito in ristampa

di Lucio Sandon

La tomba del Busento

Cupi a notte canti suonano/ Da Cosenza su ’l Busento,/Cupo il fiume li rimormora/Dal suo gorgo sonnolento.

Su e giù pe’ ’l fiume passano/E ripassano ombre lente:/ Alarico i Goti piangono,/Il gran morto di lor gente.

Ahi sì presto e da la patria/ Così lungi avrà il riposo,/ Mentre ancor bionda per gli òmeri/ Va la chioma al poderoso!

Del Busento ecco si schierano/ Su le sponde i Goti a pruova,/ E dal corso usato il piegano/ Dischiudendo una via nuova.

Dove l’onde pria muggivano/ Cavan, cavano la terra;/ E profondo il corpo calano,/ A cavallo, armato in guerra.

Lui di terra anche ricoprono/ E gli arnesi d’òr lucenti:/ De l’eroe crescan su l’umida/ Fossa l’erbe de i torrenti!

Poi, ridotto a i noti tramiti,/ Il Busento lasciò l’onde/ Per l’antico letto valide/ Spumeggiar tra le due sponde.

Cantò allora un coro d’uomini:/ Dormi, o re, ne la tua gloria!/ Man romana mai non víoli/ La tua tomba e la memoria!

Cantò, e lungo il canto udivasi/ Per le schiere gote errare:/ Recal tu, Busento rapido,/ Recal tu da mare a mare.

August von Platen-Hallermünde

traduzione di Giosuè Carducci

Lo sciamano si allontanò a capo chino: era molto preoccupato per il cattivo esito delle sue cure, specialmente perché era seguito a vista dagli sgherri della guardia personale di Alarico, fortemente scettici e irritati per la mancata guarigione del loro re e alla ricerca di un capro espiatorio sul quale sfogare tutta la loro frustrazione.

La salute del comandante barbaro peggiorava infatti visibilmente di giorno in giorno: le sue febbri erano continue e fortissime, le membra stanche e il corpo gonfio. La pelle era sempre più grigiastra e sudata. Vomitava spesso seppur non mangiasse quasi nulla, e ormai le sue urine erano rosse come il sangue e le feci nere come la notte. Pessimo auspicio.

Il comandante supremo dei Goti era ormai il fantasma del baldanzoso generale che, nella notte del 23 agosto di quello stesso anno, alla testa del suo esercito di fulvi e selvaggi guerrieri aveva messo a ferro e fuoco la capitale dell’impero romano, al termine di un crudele assedio.

I Visigoti, Wesgoten nella loro lingua, erano una tribù di nomadi, originaria di una piccola isola al largo della Scandinavia. Si erano poi spostati nelle pianure danubiane, sospinti e cacciati verso est dall’avanzata delle legioni romane, oltre i confini della Dacia.

Quando però si erano resi conto che l’esercito imperiale, allo sbando e senza più i fondi inviati dal governo centrale di Roma, abbandonava le roccaforti di confine, i Visigoti avevano iniziato a ritornare sempre più verso ovest, trovandovi cittadine sguarnite, abbandonate dalle truppe prive ormai di sostegno da parte di Roma, e appropriandosi in tal modo delle armi abbandonate dai vecchi conquistatori.

Dopo aver preso possesso dei territori e delle armi trovate nelle caserme, venne loro la voglia di raggiungere terre sempre più calde e ospitali, e infine i barbari sognarono di conquistare la capitale dell’impero.

I Visigoti dell’ovest, nel loro primitivo idioma, si autodefinivano semplicemente anche Guten in quanto essi, in maniera molto magnanima e autoreferenziale, si consideravano buoni e gentili. Al termine di un lungo assedio, dopo essere penetrati all’interno della cinta muraria di Roma attraverso la Porta Salaria, aperta con il tradimento, spogliarono l’orgogliosa capitale del mondo di tutto quanto aveva di prezioso.

Infine, soddisfatti da tre giorni di sfrenato saccheggio e dopo essersi lasciati alle spalle una catasta di uomini, donne, vecchi e bambini uccisi, violentati o ambedue le cose, se ne andarono via attraverso la Porta Asinaria, trascinando con sé oltre trecento carri colmi di refurtiva.

Il valore del bottino era incalcolabile: venticinque tonnellate d’oro e centocinquanta d’argento, oltre a migliaia di cittadini e di nobili Romani presi come ostaggi e ridotti in schiavitù.

I barbari, nell’ebbrezza del saccheggio e senza rendersi minimamente conto di che cosa si trattasse, gettarono sul fondo di un carro anche la sacra Menorah del popolo Giudeo, a sua volta rubata dai soldati romani nel tempio di Gerusalemme.

I Romani conoscevano la sua importanza e il suo valore non solo materiale quando la razziarono, ma i Visigoti pensarono forse che si trattasse semplicemente di un elaborato candelabro in oro massiccio.

Al termine dell’orgia di eccidi e devastazioni, la maggior parte dei barbuti guerrieri si incamminò verso sud procedendo in modo alquanto inconsapevole, ebbri com’erano di vino, saccheggi, e di brutalità.

I Goti avanzarono barcollando lungo i basalti della via Appia, la Regina Viarum, insensibili al fascino dei monumenti di marmo che li accompagnavano e li osservavano muti e severi. Passarono cantando e ruttando davanti alle catacombe di San Callisto e alle tombe degli Orazi e dei Curiazi senza degnarle di uno sguardo.

Non avrebbero mai saputo di cosa si trattava, ma nessuno di loro avrebbe mai sofferto eccessivamente di tale ignoranza.

Soffrirono invece, e molto, i Goti, degli attacchi dei feroci sciami di zanzare che li attendevano un po’ più a sud, quando le loro disordinate schiere attraversarono le Paludi pontine. Non immaginavano certo che le zanzare portavano nel loro sangue un passeggero terribilmente micidiale: la malaria.

Il pericoloso ospite però era invisibile e subdolo, e così loro andarono avanti per la loro strada senza sospettare di nulla, tranquillamente per molti giorni, nel loro tragitto verso l’Apulia e poi in direzione dell’Africa, in una demenziale corsa di distruzione e saccheggio senza fine.

Re Alarico aveva iniziato a stare male sul serio proprio poco prima di giungere in vista di Brundisium. Il sole picchiava crudelmente sulla tenda che copriva la sua lussuosa carrozza sequestrata in una villa dell’Esquilino, trasformandola in un forno. Il generale si scostò dalla fronte i lunghi capelli biondi, luridi e sudati, e con un sospiro di dolore sollevò

la frangia della tenda per guardare fuori. La luce abbagliante che si rifletteva sul mare Adriatico gli fece strizzare le palpebre cispose e dovette subito richiudere la tenda, tornando nella sua afosa penombra.

I cavalli si erano fermati scalpitando e soffiando forte dalle narici: la strada acciottolata che avevano imboccato alle porte di Roma terminava lì, di fronte al mare Adriatico, in corrispondenza di due bianche colonne di marmo erette in quel punto a segnalare la fine del mondo civilizzato, o forse solo per il compiacimento degli antichi costruttori.

Il molo di fronte alle colonne mostrava una teoria di imbarcazioni semiaffondate. Le navi militari, sbilenche a causa delle carene sfondate e colme d’acqua, erano state danneggiate già da tempo dai loro equipaggi, avvertiti con buon anticipo circa il sopraggiungere dell’esercito dei barbari conquistatori.

I Goti avevano tralasciato di aggredire e distruggere Neapolis e Puteoli, avendo ricevuto dai loro esploratori in avanguardia la notizia che gli abitanti più facoltosi di quelle città si erano messi in salvo sulle isole del golfo, portando con sé le cose preziose e, cosa più importante, anche tutte le imbarcazioni disponibili.

Ormai infatti l’informazione si era diffusa in tutta la penisola: i barbari erano terribili combattenti e con i loro spadoni potevano tagliare in due una persona, ma non erano assolutamente in grado di condurre un’imbarcazione. Già i popoli delle pianure del nord Italia erano riusciti a sfuggire all’orda assassina rifugiandosi sugli isolotti della laguna veneta, lasciando i mancati conquistatori con un palmo di naso.

L’avanzata lungo la via Appia aveva allora contemplato solo la distruzione di Nola, di Capua, e di altre città dell’interno. Naturalmente, i Goti tracannarono quantità enormi di vino Falernum, nella prosecuzione in direzione dell’infinito di un’orgia che sembrava potesse terminare solo in quella che era la loro meta agognata: la mitica terra dei faraoni.

I barbari, che avevano sempre mangiato seduti per terra attorno a un falò, venivano ora serviti a tavola dai senatori romani ridotti in schiavitù, mentre le notti del loro sovrano erano illuminate da una lampada a sette braccia finemente cesellata in oro massiccio.

Il loro prossimo obiettivo avrebbe dovuto essere quello delle rive dell’Africa. Mirabolanti racconti vagheggiavano delle ricchezze conservate nelle colonie libiche e nelle tombe dei re egizi, cosicché per i coraggiosi guerrieri biondi, sempre un po’ brilli, saltare a bordo delle trireme in numero inverosimile, alzare quanto rimaneva delle vele, dirigendo il timone verso l’uscita del porto, non costituì affatto un problema.

La rotta da prendere la conoscevano bene: le loro spie avevano chiesto conferma circa la direzione da prendere mentre torturavano a morte i comandanti delle guarnigioni distrutte lungo il percorso: dovevano semplicemente puntare il timone verso sud.

Quando le turbe dei Visigoti arrivarono sul porto di Brindisi in vista delle navi, sulle banchine non c’era però più anima viva: l’unico abitante del luogo che avevano incontrato era un tipo un po’ strano, benedetto dagli dei, il quale si era rifiutato di scappare con gli altri concittadini per restare ad accudire i suoi gatti.

Alla domanda di dove fosse l’Africa, il matto aveva indicato senza tentennamenti e senza timore di essere smentito quella che giustamente considerava la verità, e che sapeva essere la direzione esatta: la verde distesa che riempiva gli occhi fino all’orizzonte.

L’alto mare.

Le navi, stracolme e senza controllo, avevano ben presto iniziato a beccheggiare e a piegarsi verso l’acqua, senza nemmeno riuscire a lasciare lo specchio di mare del porto. Quando si resero conto che stavano per affondare, i barbari presero ad aggrapparsi gli uni agli altri, affogando a centinaia in pochi metri d’acqua, tra bestemmie e angoscianti richieste di aiuto, che nessuno dei compagni rimasti sulla riva aveva la voglia o la possibilità di offrir loro. Nel giro di pochi minuti, il porto di Brindisi diventò la tomba della miglior gioventù visigota.

Quella notte, la riunione dei capi tribù nella tenda di Alarico fu più turbolenta del solito, anche se nessuno aveva bevuto. Ormai chi era morto non contava più nulla, anzi le ricchezze accumulate si sarebbero dovute spartire tra un numero minore di compari, e quindi nessuno si sarebbe strappato i capelli dal dispiacere per i morti affogati.

Bisognava però cambiare strategia: era fin troppo evidente che quella non fosse la via più giusta per arrivare fino all’Africa.

Le notizie più recenti, estorte a forza di torture ai pochi abitanti  che non avevano fatto in tempo a fuggire davanti all’orda barbarica, chiarivano definitivamente che si sarebbe fatto molto prima a raggiungere poi la Trinacria attraverso le montagne del Bruzio.

Di là si sarebbe dovuto attraversare solo un piccolo tratto di mare per sbarcare sulla riva sud del Mediterraneo senza problemi. Alarico non intervenne mai nella discussione: l’altezzoso principe della stirpe dei Balti, che aveva guidato il suo popolo fino a conquistare tutte le terre che erano state dei Romani, vagava con il suo sguardo assente in giro per la tenda senza ormai rendersi conto di dove fosse. Nel vuoto della sua mente, mormorava parole incomprensibili, ridacchiava e si pisciava addosso.

La decisione venne presa allora all’unanimità, e suggellata con abbondanti libagioni del potente vino locale, più rosso del sangue, e che non aveva nulla da invidiare al Falernum: si andava verso la Trinacria. Da lì l’Africa si poteva quasi vedere.

Detto fatto: le turbe vocianti riattraversarono gli Appennini, poi superarono le montagne della Sila e dell’Aspromonte, e raggiunsero infine la punta estrema del Bruzio. La rocca di Reggio era presidiata da una forte guarnigione ancora fedele al governo di Roma, e resistette eroicamente, finché non venne sopraffatta dai barbari combattenti venuti da lontano.

Quando i legionari rimasti a difesa della rocca furono infine costretti a capitolare, la vendetta dei Goti contro di loro fu crudele: dopo averli trucidati dal primo all’ultimo, appiccarono fuoco alla fortezza.

Le fiamme si alzarono altissime e il castello distrutto bruciò per tutta la notte terrorizzando i siciliani, prossime predestinate prede dei barbari.

Per fortuna, sulle vite dei siculi vegliano i millenari e famelici custodi dello stretto. Scilla e Cariddi, i due temibili mostri che da sempre abitano quelle turbolente acque, risucchiarono il mare e dilaniarono gli imprudenti navigatori che si erano lanciati alla conquista dell’isola, facendo strage tra i Goti che avevano tentato la traversata del piccolo stretto tra la terraferma e l’isola.

Tutti gli sfortunati temerari che si erano avventurati tra i flutti vennero inghiottiti dalle onde e scomparvero per sempre, insieme alle loro imbarcazioni.

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Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto Cuori sui generis” 2019.

 

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