racconti

Il Racconto, San Gennaro Blues

di Lucio Sandon

Sì proprio ‘nu Babbà!

Sotto il Vulcano è un’esclamazione di amore, di ammirazione, di amicizia, di affetto. Il Babà è probabilmente il dolce napoletano più famoso in Italia e nel mondo… è un’invenzione polacca.

Re Stanislao, il cognome non lo scrivo perché sembra un errore di stampa, era un consumatore accanito di un dolce mitteleuropeo con un nome un po’ meno impronunciabile del suo, ma sempre difficile: il kugelhupf, che gli rimaneva però un po’ secco da masticare così lui, per riuscire a mandarlo giù e per dimenticare i suoi guai (gli era stato tolto il regno di Polonia ed era stato declassato a regnante della Lorena), si dava un tono centellinando un bruno liquore distillato dalla canna da zucchero, proveniente da oltremare. Sembra che in un momento di debolezza o più probabilmente di ubriachezza, abbia fatto cadere il bicchiere pieno di rum  nel vassoio del kughelcoso, inzuppandolo a dovere.

I servitori stavano per portarlo via, ma quando il vassoio gli passò sotto il naso, si rese conto che così era molto più profumato e buono da mangiare, e per conferma lo fece assaggiare anche alla nonna (la baba), che lo gradì molto, anche perché si poteva gustare perfino senza avere i denti.

Furono poi i pasticceri venuti al seguito di Maria Amalia, principessa di Polonia e sposa di Carlo III di Borbone, ad importare nel regno del sole la tradizione del babà al rum.

Don Gennaro era un babà, (anche se era siciliano, e avrebbe dovuto semmai essere una cassata) e il suo principale, l’ingegner Umberto, era ancora più babà di lui.

L’ingegnere era il più importante cliente del dottor Gardenia, essendo il felice proprietario di diciotto cani da pastore abruzzese, e don Gennaro era il suo uomo di fiducia, addetto al benessere del branco di candidi giganti, al loro mantenimento ed al trasporto per cure mediche presso il veterinario di fiducia, e all’uopo munito di un furgone riservato al trasporto dei cani dalla villa di Portici dell’ingegnere,  a Torre del Greco.

Portici è una piccola grande città.

Vive distesa tra il mare e il Vesuvio, e si appoggia languidamente con tutto il suo fianco meridionale al muro dei Boschi Reali, il superiore e l’inferiore della reggia Borbonica, che nel loro insieme costituiscono la maggior parte del territorio comunale.

La storia della cittadina ebbe inizio qualche secolo prima di Cristo, come stazione balneare di lusso per i più ricchi senatori romani: sembra che il nome derivi da “Villa Pontii”: la villa di Quinto Ponzio Aquila, uno dei congiurati che alle idi di marzo del 43 a.c. pugnalarono Giulio Cesare. Del senatore Aquila, durante i lavori per costruire il Real Sito, Carlo III ritrovò lo stemma, fatto poi proprio dal municipio: sotto il pericoloso e starnazzante rapace campeggiano ancora le iniziali del regicida.

Si narra che Sua Maestà don Carlos di Borbone, figlio di Filippo V re di Spagna e di Elisabetta Farnese, scoprì il sito di Portici durante un fortunale: sembra che sia rimasto talmente affascinato dalla caletta in cui dovette riparare con il suo vascello a causa di una tempesta mentre veleggiava nel golfo insieme alla sua signora, Maria Amalia di Sassonia, che decise di farsi costruire un villino per trascorrere qualche ora andando a caccia di quaglie sulle pendici del vulcano, e godere della fresca brezza marina.

Molto più probabilmente, conoscendo la storia ed  il carattere del buon Carlos, è estremamente più credibile che l’illuminato sovrano abbia tirato fuori il suo libretto degli assegni, e con poche e sapienti parole  abbia convinto a traslocare i proprietari dei terreni sul mare posti su di un’altura in posizione strategica sul golfo.

Marino Caracciolo principe di Santobono, e Tommaso d’Aquino principe di Caramanico, accettarono di buona grazia alcuni effetti posdatati, giusto per non far innervosire il re ed anche per evitare l’esproprio forzoso delle loro splendide dimore.

Il servizio informazioni del sovrano aveva infatti scoperto che tutta la villa del Caramanico era costruita secondo l’arcana simbologia dei Rosacroce, l’antica setta antesignana della Massoneria fondata dai discepoli di San Marco nel 46 d.C. e gli 007 al servizio del Borbone, avevano anche riferito al loro capo che i Caracciolo ed i Caramanico, insieme ad altri nobili locali, avevano in uggia ed antipatia il nuovo sovrano temendone giustamente  il carattere duro e le idee per quel tempo fin troppo progressiste.  Infine, i sacrilegi avevano addirittura stretto contatti con la massoneria inglese, direttamente legata alla corona britannica.

Probabilmente il fatto di voler costruire una reggia proprio a Portici, e sul posto dove esisteva la sede della società segreta più potente dell’epoca, fu presa dallo scaltro sovrano per far capire a chi doveva capire, che la sua politica non ammetteva intralci, ostruzioni o fraintendimenti da parte di chicchessia, e quindi l’approdo al Granatello non fu poi così fortuito come si poteva pensare.

Altre acquisizioni seguirono a breve: il convento dei frati minori di San Francesco, giusto per non far torto alla Santa Sede,  il palazzo del marchese Mascabruno, ed infine la villa del malefico tombarolo D’Elbeouf, che diventò “Approdo Borbonico” e venne usata come dependance sulla spiaggia dopo la cacciata del principe fedifrago.

La costruzione della reggia venne affidata ad uno stuolo di architetti e agronomi, guidati da Canevari, Fuga e Vanvitelli, i quali quando fecero notare al re dopo accurati sopralluoghi che la zona poteva essere pericolosa a causa delle eruzioni vulcaniche, ottennero come secca risposta: «A questo ci penseranno Iddio, Maria Immacolata e San Gennaro! »

La reggia è ancora lì.

La sede del Dipartimento di Agraria dell’Università Federico Secondo, è ancora splendida nella sua architettura particolarissima, voluta proprio dal re Borbone per sottolineare la vicinanza della famiglia reale al suo popolo: è infatti l’unica dimora reale al mondo costruita a cavallo di una pubblica strada e i viandanti e le carrozze che transitavano, come ancora oggi, sulla Regia Via delle Calabrie, passano proprio all’interno di palazzo reale.

La trafficata arteria, nel suo percorso verso Ercolano, viene ad essere inglobata nel cortile centrale della reggia, che la avvolge con due cavalcavia, i quali a loro volta  raccordano il lato affacciato verso il mare, con quello prospiciente la montagna.

Al di sotto di uno dei corridoi che passano in alto sulla pubblica strada, c’è un vero gioiello scampato all’abbandono cui era stata destinata la meravigliosa costruzione dopo la conquista da parte dei Savoia: la cappella reale, che in origine avrebbe dovuto essere un piccolo teatro di corte ed infatti ne ha la forma. Fu re Carlo ad accorgersi che nel progetto non era contemplata la chiesa, la quale prese per augusta decisione il posto del teatro di corte.

Il primo musicista ad inaugurare l’organo monumentale della chiesa fu un giovanissimo Wolfgang Amedeo Mozart, durante il suo soggiorno a Portici ospite dei Borbone, nell’estate del 1770: lo strumento è ancora affettuosamente conosciuto in città come “l’organo di Mozart”, con una velata punta di ironia.

Il piccolo genio della musica non ebbe però un grosso successo alle falde del Vesuvio, infatti in una lettera al padre ebbe a scrivere:  «Adesso la questione è solo: dove posso avere più speranza di emergere? forse in Italia, dove solo a Napoli ci sono sicuramente almeno trecento Maestri, o a Parigi, dove circa due o tre persone scrivono per il teatro e gli altri compositori si possono contare sulle punte delle dita?»

Il piccolo genio della musica fu però certamente uno dei più appassionati frequentatori del serraglio della reggia, costruito nei giardini del bosco superiore, dove, per il piacere del re e dei suoi nobili amici, si tenevano in cattività leoni, tigri, pantere, gazzelle, canguri, ed addirittura un elefante africano.

«Pronto, chi è al telefono?»

«Eh, no guardi, lei ha chiamato e deve presentarsi per primo!»

«Ahhh… la signorina Alessandra! Che simpatica! Signorì, ti ho riconosciuta, quello bello accento francese che tieni è troppo bello! … Signorì, mi fai parlare con il dottore, che gli devo dire una cosa da uomini?»

Alessandra sbatté il telefono sulla scrivania, sperando che almeno gli si rompesse un timpano, ma non aveva tenuto conto del fatto che Don Gennaro era un po’ duro d’orecchi: con occhi furibondi fece cenno al dottor Gardenia che era richiesta la sua consulenza.

Nonostante si presentasse sempre con un regalino per lei e Marisa, l’anziano autista aveva il potere di farla imbestialire con la sua greve galanteria a doppi sensi, ed il rifiuto costante di appellarla con il suo titolo accademico.

«Dottò, sei tu?»

Don Gennaro non conosceva l’uso del lei o del voi, era un po’ maschilista, troppo amante della buona tavola e del rosso locale, ma era una pasta d’uomo, anzi un babà.

«Dottò, qua teniamo un problema, Teo (il gigantesco e feroce capobranco) e Bianchina (10 mesi, l’ultima arrivata) si sono attaccati.»

«Hanno litigato?»

«No dottò, niente litigato… hanno fatto l’amore, e adesso stanno attaccati, però se l’ingegnere se ne accorge, mi leva la pelle da dosso, lui me lo aveva detto di stare attento…»

«E tu ti sei dimenticato, vero, Don Gennaro? Adesso non ci puoi far niente, devi solo aspettare un quarto d’ora, si staccano da soli.»

«Eh già dottò, tu la fai facile, ma si sono attaccati proprio davanti al cancello della ditta… qui ci sta un camion che deve uscire e un furgone del corriere che deve consegnare, se torna adesso l’ingegnere, per me finisce a schifìo!»

«Cavoli tuoi, Don Gennaro… i cani non si possono staccare, potrebbero farsi del male: l’unica cosa che puoi fare è cercare di spostarli dall’ingresso! Prendi una bella bistecca e mettila sotto il naso di Teo, quello è una belva affamata, vedrai che per seguire la carne si dimentica anche della sua nuova fiamma!»

Il mattino seguente, il furgone bianco di Don Gennaro era già nel parcheggio dell’ambulatorio, quando il dottor Gardenia arrivò per aprire. Sceso con fatica, ansimando e smoccolando in siculo stretto, l’anziano factotum, capelli candidi, coppola nera e il mezzo toscano fisso all’angolo della bocca, fece scendere dal retro uno splendido cane con un lungo mantello bianco. L’espressione allegra e gli occhi attenti, ispiravano subito simpatia.

«Dottò, ecco la colpevole della rivoluzione di ieri, la devi sgugghiari

«Eh… Cosa?»

«La devi crastari

Don Gennaro era sicuramente un babà, ma non aveva le idee molto chiare circa l’anatomia canina.

«Vabbuò Don Gennaro, portala dentro, lo sai che me la devi lasciare per un paio di giorni, la vieni a prendere domani sera… Hem, Don Gennà, chiedi un po’ all’ingegnere… facciamo tutto un conto?»

Don Gennaro si bloccò con il guinzaglio di Bianchina stretto nella destra, mentre un’espressione di estrema meraviglia gli si dipingeva sul volto aperto e sorridente.

«Ué dottò, che mi stai a dì? Vedi che ti ho pagato tutto il lavoro vecchio, anche per il canile! Sono passato la settimana scorsa, ho lasciato la busta con i soldi alla signorina, e mi sono pure preso la fattura!»

Una rapida indagine fu utile a stabilire che quel giorno, non essendo presente nessuno dei veterinari, Don Gennaro aveva lasciata una busta gonfia di banconote ad una delle addette alla toelettatura, la quale guarda caso, il giorno dopo si era ammalata e non era più andata al lavoro, guardandosi bene dal consegnare il malloppo.

Dopo un paio di giorni, constatata la mancata guarigione dell’ammalata e le altrettanto mancate risposte alle telefonate, una delegazione composta da Alessandra e Marisa, si recò ad indagare sul mistero della busta scomparsa.

In molte zone del Sud, diversamente da quanto si potrebbe normalmente pensare, i quartieri più popolari sono quelli che si affacciano direttamente sul mare: mentre i Borbone e i loro principi e marchesi avevano le ville con vista Capri, ora i benestanti preferiscono abitare in collina, lasciando le nere spiagge di vulcanico lapillo al popolino.

Tra il punto più alto sul bordo del cratere, e quello  a livello del mare, nel comune di Torre del Greco l’escursione altimetrica supera di poco i mille metri, ma non potrebbe esistere una distanza più siderale tra le lussuose ville dei ricchi e i tuguri dei derelitti che si accavallano dietro al porto. Proprio lì quel pomeriggio d’inverno, si fermò slittando sui lastroni di basalto della pavimentazione stradale, il vecchio furgone azzurro, dal quale dopo qualche esitazione spuntarono Alessandra e Marisa con il viso coperto da sciarpe e cappelli, per proteggersi dalle sferzate del maestrale che rendeva il mare una massa di schiuma bianca e trasformava le strade del quartiere al disotto della ferrovia in un deserto di cartacce svolazzanti.

L’abitazione era a pianoterra, sulla strada: il cosiddetto “basso”, il più elementare ed economico tipo di abitazione dopo le grotte del neolitico. Il campanello era rotto, ma anche in caso contrario nessuna delle due donne, che non avevano paura di visitare una tigre, avrebbero avvicinato il dito a quel pulsante che una volta era stato rosso, ma ora era nero di grasso e sporcizia, e contornato da fili di rame scoperti.

Alla terza scarica di pugni sul portoncino malandato, mentre dopo essersi guardate in faccia senza parlare, stavano per girarsi verso il Renault 4 con il logo della testa di cane, la porta si aprì per qualche centimetro, lasciando vedere la testa di una vecchia signora che un tempo doveva essere una bella donna, e di quel ricordo conservava solo un minimo di orgoglio.

«Nun ci sta nisciuno, signurì… nun ce serve niente

«Scusi signora, non vendiamo niente, siamo della clinica veterinaria, volevamo chiedere come sta Crist…»

«Siete venute per i soldi vero? Vi ha mandate il titolare, perché lui non ha il coraggio di scendere nei bassifondi?»

La ragazza che si era materializzata dietro alla nonna, era il fantasma della toelettatrice dagli occhi neri e dai corti capelli rossi che ora sì, si vedeva chiaramente era la nipote dell’anziana bellezza che aveva aperto la porta.

«Quei soldi non li ho rubati, mi servivano urgentemente e non ho potuto far altro che prenderli, ho pensato che me li avevano mandati San Gennaro e Maria Immacolata, ho intenzione di restituirli fino all’ultima lira, però non subito… guardate qui!»

All’interno dell’unica stanza della casa, riscaldati da una stufetta elettrica c’era una culla, dalla quale spuntavano le teste ricce di due neonati di un bellissimo color caffellatte.

«Madonna mia, l’Immacolata Concezione! – sbottò Marisa, meritandosi una potente gomitata nelle costole da parte di Alessandra – E questi chi sono?»

«Ai nomi non ci abbiamo ancora pensato, per il momento stiamo cercando di trovar loro da mangiare – rispose Cristina  la giovane ladra – sono i figli di quella disgraziata di mia sorella più piccola: si è messa con un poco di buono, africano o arabo non ho nemmeno capito, è venuta la settimana scorsa con i gemelli, li ha lasciati qui ed è sparita portandosi via anche una collanina d’oro di mamma»

«I soldi mi servivano per comprare il latte e le altre cose per loro, però tra poco finiranno anche quelli e non so più cosa fare.»

«Potresti affidarti all’anima caritatevole di Sant’Umberto», mormorò Alessandra, e prendendo Marisa sotto braccio si avviò verso l’uscita, lasciando cadere sul comodino alcune banconote ben ripiegate su sé stesse.

Invece di tornare all’ambulatorio, il furgoncino azzurro si diresse scoppiettando e beccheggiando, lungo la strada litoranea che da Torre del Greco conduce verso Portici, alla lussuosa villa dell’ingegnere.

Il giorno dopo, di buon’ora, don Gennaro era già in attesa nel parcheggio della clinica, con il primo toscano della giornata penzoloni dalle labbra.

«Dottò, mi devi scusare, sai la vecchiaia mi fa perdere un po’ la memoria, questi te li manda il principale».

Tirò fuori una grossa busta di carta legata con un elastico, e con il suo solito sorriso ammiccante la consegnò nelle mani di un allibito dottor Gardenia.

«La fattura però già l’avevo presa… salutami la signorina Cristina e dille che la vado presto a trovare!»

Le visite di San Gennaro al povero basso dietro la spiaggia del porto, proseguirono negli anni con l’intercessione di Sant’Umberto, mentre Cristina tornò dopo qualche mese al lavoro che le piaceva così tanto, senza aver mai più bisogno di rubare.

I due piccoli color caffellatte ormai non più derelitti, vennero battezzati come Gennaro e Maria Immacolata, in braccio a due emozionatissime giovani veterinarie, ed ora girano tranquilli per le strade del paese, lo sguardo fiero, ed i loro libri universitari sotto braccio.

 

 

 

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.

 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *