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Il Racconto, San Giovanni

di Lucio Sandon

Nel giorno di San Giovanni, il sole si sposa con la luna e l’acqua fa l’amore con il fuoco. In fondo alle campagne si accendono grandi falò per glorificare il sole, propiziarne la benevolenza e anche per tener lontani quei demoni che nella notte precedente erano stati liberi di scorrazzare liberamente in giro per il mondo. Lo sanno tutti.

A San Giovanni, nel tempo brevissimo in cui sboccia un fiore, nel brillare di un fuoco e perfino nell’istante della morte, proprio allora si liberano le energie della natura. Nel suo seno, in quell’attimo preciso, avviene uno sposalizio ed è proprio in quel momento magico, nel giorno di Mezza estate, che il cielo e la terra si uniscono in un rapido, tragico amplesso.

«La notte di San Giovanni destina il mosto, i matrimoni, il grano e il granturco», dice l’antico proverbio.

Tutto succede nella notte più breve prima del giorno più lungo dell’anno. Al culmine di quella notte, mentre una luna rossa andava ad affogare nel mare, all’interno della camera attrezzata del laboratorio segreto nascosta nei sotterranei di Palazzo Sansevero, il sergente Antonio de’ Monaci detto Totò aprì lentamente un occhio, si guardò intorno per qualche breve istante, poi lo richiuse immediatamente.

Non era possibile, stava sognando. Rimase per qualche secondo così, le palpebre strette per non vedere, in bilico, con la coscienza sospesa tra l’oblio della droga e la debole luce riflessa di una lontana lampada ad olio sul punto di spegnersi.

Dopo un tempo che gli sembrò lunghissimo, riaprì tutti e due gli occhi, ma una tremenda fitta di bruciore lo costrinse a stringere di nuovo le palpebre. Cominciò a ricordare, a rivedere tutto ciò che era successo nel pomeriggio del giorno precedente, e cercò di fare un po’ di luce in quella foschia che gli annebbiava i sensi. Non solo la mente era

annebbiata: cercò senza riuscirci di mettere ancora un po’ di più a fuoco la vista, e arrivò alla conclusione che tutta la camera era immersa in una nuvola di vapore.

Era stato convocato dal principale nel suo laboratorio, ma questo già se lo aspettava dopo la scoperta del furto con scasso, e per quello aveva già pronta una spiegazione più che plausibile. Quello che non si aspettava era che quel pazzo avesse già scoperto che lui era un agente della guardia personale del re e che gli avesse messo qualcosa in quel caffè, da lui sempre assaporato di nascosto e con estrema soddisfazione.

Si costrinse a riaprire di nuovo gli occhi, e quello che vide lo riempì ancor più, se possibile, di inquietudine e paura: si trovava completamente nudo e immerso dentro una grande vasca rivestita di pietra liscia, e la vasca era piena di un fluido bianco, con il colore e la consistenza di una crema di latte.

Ma non era latte: ne assaggiò una stilla con la punta della lingua e la bocca gli si riempì di un saporaccio infame. Sembrava calce, quella che usano i muratori.

Tiepido. Solo un po’ caldo. Il liquido era caldo, ma non troppo, e se fosse stato in un altro momento Totò ci si sarebbe crogiolato, la sensazione fisica era di estremo benessere.

Per un attimo pensò che forse poteva abbandonarsi a quel dolce oblio, prima di cominciare a pensare a come venir fuori da quella situazione imbarazzante.

Si riscosse, un rumore insistente di sottofondo gli colpiva i timpani.

Decise che aveva perso anche troppo tempo e doveva assolutamente uscire da lì dentro, anche se le membra gli sembravano pesanti come macigni, e il liquido caldo lo invitava a rilassarsi e dormire, riposare, chiudere gli occhi e dimenticare il dolore.

Dimenticare tutto.

Cercò di scrollare la testa per scacciare quella sensazione di ottundimento: la ragione gli imponeva di sforzarsi, di allontanarsi al più presto da quel posto, il suo dovere era di avvertire il comandante che il principe aveva scoperto tutto e sapeva dei disegni rubati e sostituiti. Sicuramente il suo ormai ex principale avrebbe teso un tranello a quel bravo giovane, l’architetto Angelo: il principe non era un uomo, era un diavolo e lui ora poteva testimoniarlo.

Totò cercò di sollevarsi, ma guardando le sue membra si accorse che quel senso di disagio e costrizione non era solo una sensazione.  L’oppressione che avvertiva sul suo fisico era reale: si trovava avvolto in una pesante rete da pesca, di quelle che si usano per i tonni e i pescispada. Cercò di spostarla perlomeno dalla testa per avere la possibilità di respirare un po’ meglio, ma ogni movimento gli procurava una fatica mai provata prima. Con uno sforzo sovrumano, abbrancandosi agli orli della vasca, cercò di tirarsi in piedi, e dopo un paio di scivoloni emerse da quella coltre opprimente, così il fluido nel quale era immerso cominciò a scorrere lungo il suo corpo, ricadendo nel contenitore dove anche lui era immerso.

Nel frattempo la temperatura già notevole della stanza era aumentata man mano nel giro di pochi minuti, diventando sempre più insopportabile. Il liquido nel quale era immerso, invece di fluidificarsi, con il calore tendeva a diventare sempre più denso e solido. Colpa, forse, del vento.

Strano, c’era del vento dentro una stanza sotterranea. Ecco l’origine di quel rumore di fondo.

Totò voltò per quanto gli riusciva la testa e con orrore si rese conto di essere stato messo di fronte a un enorme mantice, azionato da una serie di leve e pulegge. Il mantice gli soffiava addosso il calore di una fornace aperta su due lati.

Le membra gli si facevano sempre più pesanti man mano che la miscela di marmo in polvere, acqua e calce spenta nel quale era stato immerso insieme alla pesante rete, si solidificavano contro la sua pelle al contatto con il flusso d’aria infuocata.

Gli occhi sbarrati per il raccapriccio, la gola bloccata dal fluido che vi era penetrato attraverso la bocca muta e spalancata, Totò capì solo allora che quelli erano gli ultimi istanti della sua vita, e con un ultimo sforzo sovrumano tentò di liberare la testa dalla rete, ormai divenuta di duro marmo, che lo avviluppava come un sudario.

Fu l’ultimo movimento che il sergente Antonio dè Monaci fece su questa terra. Totò rimase lì per l’eternità, con gli occhi sbarrati, ricoperti di marmo liquido, tragica e pietosa maschera del disinganno.

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.

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