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Il Racconto, Veleno molto velenoso

di Lucio Sandon

Come ne l’ocean, s’oscura e n’festa/Procella il rende torbido e sonante,/A le stelle onde il polo e’ fiammeggiante/Stanco nocchier di notte alza la testa,/Così io mi volgo, o bella gatta, in questa/Fortuna, Ode avversa a le tue luci sante,/E mi sembra due stelle aver davante/Che tramontana sian ne la tempesta./Veggio un’altra gattina, e veder parmi/L’orsa maggior con la minore: o gatte,/Lucerne del mio studio, gatte amate,/Se Dio vi guardi da le bastonate,/Se ‘l ciel voi pasca di carne e di latte,/Fatemi luce a scriver questi carmi. (Torquato Tasso, Ode alle gatte)

Quando Torquato Tasso aprì gli occhi sul mondo, nel 1544, la prima cosa che gli si parò davanti agli occhi, fu il volto di sua madre, poi  quasi certamente vide  il mare che schiumava sotto le finestre della sua casa, ma poco dopo non potette fare a meno di vedere uno dei gatti di Sorrento, che non sono dei gatti qualunque.
E nemmeno il mare era un mare qualunque: la casa paterna si ergeva su di un’altissima scogliera a picco sul golfo delle Sirene, e al di là della distesa blu cobalto, se in quel giorno di marzo soffiava un poco di maestrale, sarebbe di certo riuscito a scorgere il monte Epomeo, che sorveglia arcigno il lato opposto dell’insenatura.

Quella casa non esiste più: era stata costruita in modo troppo ardito sulla scogliera, e precipitò in mare insieme al costone tufaceo su cui era poggiata, oppure, come recita una lapide posta lì vicino «Quasi mal tollerando di accogliere inquilini volgari, poscia che aveva perduto il chiarissimo poeta», decise autonomamente di sparire per sempre, insieme ai capitelli corinzi ed agli altri ruderi della villa di Agrippa Postumo, sopra i quali era edificata.
L’ode alle gatte non è stata scritta a Sorrento, ma nell’Ospitale di Sant’Anna di Ferrara, che è senz’altro  un bel nome per indicare il manicomio criminale della città Estense, nelle cui segrete il buon Torquato era stato gettato dopo essere andato un pochino fuori di testa ed aver pesantemente insultato il Duca, suo protettore ed amico.

A Sorrento, uno dei più vecchi clienti del dottor Gardenia era il maresciallo dei carabinieri.

No, non era quello del film di De Sica, Pane amore e fantasia, ma era lo stesso un bel personaggio, di antica educazione e signorilità innata.

Il militare aveva un unico problema nei rapporti con il suo veterinario: odiava profondamente l’eterno serpentone di automobili, che perennemente  soffoca la stretta e sinuosa statale sorrentina. Nel caso di malattie o vaccinazioni per il suo grosso e feroce pastore tedesco, che il dottor Gardenia classificava come “Cane Poliziotto” solo per il gusto di irritare un po’ lo strenuo sostenitore della Fedelissima, il veterinario si allora recava di buon grado a far visite domiciliari in costiera.

«Salve dottore, dovrei chiederle una grossa cortesia: lei dovrebbe venire urgentemente a casa mia, ma non in moto, con la macchina… No,  il cane sta benissimo. Ho bisogno di aiuto per un altro tipo di animale, sono disposto a spendere qualunque cifra, ma ho bisogno del suo aiuto urgente. Qui c’è qualcosa che non va.»

“Qualcosa” era una grossa teca di vetro, un terrario, con dentro due splendidi esemplari di rettili: una coppia di pitoni reali, da un metro ciascuno.

Torquato e Aminta, nel loro manto di squame verde smeraldo, osservavano lo stupito veterinario e il robusto sottufficiale in pensione con i loro gelidi occhi gialli, cercando con ogni evidenza di catturarne gli sguardi per ipnotizzarli prima di stritolarli tra le loro spire.

«Dottò, questi me li ha regalati un amico, a cui li avevano regalati a sua volta: sua moglie aveva minacciato di cacciarlo di casa se non sparivano subito, invece la mia signora ha deciso di andarsene lei, dopo quarant’anni di matrimonio, se non mando via queste povere bestie.

Non sono carini? Non fanno chiasso, non sporcano.

Mangiano poco eh, solo un topolino bianco una volta al mese, a turno. Ecco quello è il pasto del mese di gennaio!»

Il pasto di gennaio, invece di fare testamento, per nulla impressionato dagli gelidi sguardi,  zampettava allegramente per tutto il terrario, arrampicandosi e annusando con curiosità i due serpenti, i quali a loro ostentavano un nobile distacco verso il roditore.

Improvvisamente  il topolino constatata l’immobilità di Torquato e Aminta, salì sul dorso del maschio,  e cominciò a rosicchiarne voracemente la  punta della coda.

Poco ci volle a convincere il dottor Gardenia. Lui amava moltissimo osservare le sinuose movenze dei rettili e i loro splendidi colori, tanto che si era più volte ripromesso di adottarne  uno, e ora non solo ne poteva avere una coppia completa di tutta l’attrezzatura, ma incassava anche una buona parcella per la visita, senza contare  l’imperitura gratitudine del maresciallo!

Grande e tangibile fu anche la gratitudine della signora Giuseppina,  la quale messi da parte i propositi di divorzio alla notizia dell’intervento del dottor Gardenia, e vista l’ora canonica, aveva preparato la sua specialità: gli gnocchi alla sorrentina. Serviti nelle loro caratteristiche teglie di coccio smaltato, e portate a tavola ancora roventi di forno, sono una delizia per gli occhi, per l’olfatto e per il palato: la provola ribolle profumata tra i gnocchetti di patate conditi nel sugo di pomodoro fresco e ricoperti di mozzarella fusa dal calore del forno, mentre le foglioline di basilico crudo sprigionano il loro aroma per il vapore emesso dagli altri ingredienti.

Il profumo degli aranci del giardino del maresciallo completava il pranzo, mentre il terzo bicchiere di falanghina e il limoncello locale vennero rifiutati dal sazio e felice professionista, per timore sia dell’etilometro che dello sguardo severo del militare.

Arrivato  in ambulatorio, il dottor  Gardenia impiegò  il tempo che rimaneva prima dell’apertura pomeridiana a sistemare la teca nella sala d’aspetto, e a medicare i due poveri rettili dalle rosicchiature inferte loro dal feroce topolino bianco, evidentemente troppo affamato e indigesto. Da vittima sacrificale, il roditore si era trasformato in goloso consumatore di scaglie di serpente, e per questo venne a sua volta liberato nell’orto della clinica, dove avrebbe potuto iniziarsi alle delizie della verdura fresca. Nei giorni successivi iniziarono a fioccare le occhiate storte e i commenti salaci da parte di Alessandra e Marisa, le collaboratrici del dottor Gardenia, le quali stranamente dimostravano una spiccata antipatia per gli stupendi animali. La cosa più strana però, era che contemporaneamente si verificava una significativa diminuzione della clientela dell’ambulatorio, per ragioni che nessuno sapeva spiegarsi. Il mistero si palesò dopo qualche giorno, per bocca della signora Concettina, la donna delle pulizie, davanti ad una tazzina di caffè.

«Dottoré

Sbottò la brava donna  rivolta a Marisa che sorseggiava la sua bevanda guardando con sospetto il terrario di Torquato e Aminta.

«’A ggente se mettono paura  d’e serpiente… nun ce venene proprio a purtà e cane a visita

Il grosso contenitore di vetro venne trasportato nuovamente nella macchina del veterinario, che si scervellò per  tutto il pomeriggio nel cercare una scusa plausibile per trovare una sistemazione a casa sua, ma non elaborò nulla di meglio  rincasando a tarda sera, che sistemare la teca con i due animali in cantina, approfittando del favore delle tenebre.

Il mattino successivo, preso dai suoi pensieri e dimentico di Torquato e Aminta, che dormivano tra le bottiglie di Coda di volpe e Lachrima cristi, se ne andò tranquillamente al lavoro.
«Pronto, studio veterinario.»

Dopo qualche secondo di ascolto, Alessandra chiamò il titolare e gli porse la cornetta con aria stupefatta.
«E’ il tuo vicino di casa, ma non capisco cosa dice, parla di urla e strepiti.»
«Salve, scusa se ti disturbo,  è una cosa urgente! Dovresti venire subito, si sentono delle voci provenire da casa tua… Qualcuno piange e si dispera, deve essere successo qualcosa, vieni subito. Se vuoi, chiamo la polizia.»
Come prima cosa, il dottor Gardenia telefonò a casa, ma il telefono squillava senza risposta, nonostante Filofteia, la fedele domestica fosse regolarmente in servizio. Questo fatto allarmò ancora di più il dottor Gardenia, che si fiondò immediatamente verso casa, alla maggior  velocità consentita dal vetusto autoveicolo e dalle condizioni del traffico. Insistenti squilli del campanello non sortivano alcun effetto, così inserì la chiave nella serratura e aprì con cautela la porta di casa: da qualche parte dell’abitazione si udivano effettivamente provenire dei lamenti e pensò che Filofteia poteva essere caduta per le scale.

Con il cuore in gola salì in fretta al piano di sopra, ma gli strepiti non erano di dolore e sembrava fossero prodotti da qualche parte all’esterno dell’abitazione. Diverse volte l’uomo chiamò la domestica, con voce sempre più alta e preoccupata, girando per la casa, fin quando, passando davanti alla porta che dava sul terrazzo, udì la voce disperata di Filofteia.
«Aiuto, dòttore! Sono qui fuori, venite a salvarmi!»
La portafinestra era semichiusa, ma gli scuri esterni erano chiusi, spinti evidentemente per bloccarli: la donna era in piedi sulla ringhiera del terrazzo e si teneva con le due mani stretta alla grondaia, pronta con ogni evidenza a lanciarsi nel vuoto.
«Che succede Filofteia, è entrato qualcuno?….Ti hanno aggredita?»
«Dòttore Dòttore, quelle cose, le vipere!”
“Cavolo! Ho dimenticato i serpenti! Sono scappati?»
«Si dòttore le vipere!»
«Non sono vipere, Filofteia, sono pitoni, e non mordono, ma dove sono scappati?»
«Dòttore, in cantina!  Sono andata a prendere l’olio. Ci sono due serpenti avvelenati,  molto avvelenati. Stavano dietro un vetro!»
«E sei scappata fuori, di sopra, con questo freddo?»
«Si dòttore, molto paura, serpenti cattivissimi, ha veleno molto velenoso!»

«Ma  se sono chiusi dentro alla loro vasca, non possono uscire! E poi, Filofteia, sono pitoni, non sono serpenti velenosi!»
« Io non so se sono usciti, ho paura dei serpenti velenosi!»
Il dottor Gardenia poteva anche essere un poco svagato, ma non era scemo del tutto: avendo subdorato  il lieve disgusto che la sua domestica nutriva verso l’innocente coppia di pitoni reali, e conoscendo piuttosto bene l’affinità che legava Filofteia alla sua datrice di lavoro, prese una decisione immediata, e sceso in cantina, abbrancò la teca con i serpenti e la portò  in giardino, appoggiandola a terra prima di caricarla in macchina, quando contemporaneamente il terrario e la sua schiena si ribellarono ai ripetuti maltrattamenti, e con un malevolo “crack” simultaneo si spezzarono ambedue.
I serpenti, guadagnata un’insperata libertà, senza guardarsi intorno nemmeno per un attimo, strisciarono velocemente verso il fondo del cortile e le campagne limitrofe, sparendo alla vista in pochi istanti.

Lo sfortunato veterinario rimase invece con la schiena bloccata verso terra, boccheggiando per il dolore, mentre Filofteia, senza por tempo in mezzo riguadagnava i piani alti della casa ululando per la paura delle “vipere velenose in giardino”.
Fu solo dopo oltre mezz’ora, che la moglie del dottor Gardenia tornando dall’ufficio, si trovò d’innanzi la tragica scena: il marito prono e dolorante steso nel cortile di casa tra i taglienti cocci di vetro del terrario, e Filofteia barricata al piano di sopra, che tremava e ululava per la paura delle vipere avvelenate.
Il malato venne soccorso  dopo  circa mezz’ora di sofferenze, dalle sue coraggiose colleghe, Marisa e Alessandra, intervenute abbastanza prontamente dietro richiesta telefonica da parte della moglie del dottor Gardenia, la quale aveva usato il telefono non senza aver prima sbarrato tutte le porte e le finestre della casa, e

dopo essersi chiusa fuori del balcone della camera da letto insieme alla tremante domestica.
Le due professioniste avevano perso un po’ di tempo prima di arrivare a casa del principale perché si erano munite di un lungo bastone e di una fiocina da polpi acquistata in un locale negozio di articoli sportivi, guanti di cuoio e stivaloni di gomma al ginocchio, guardate con sospetto dal negoziante, cui non capitavano così spesso clienti così spaventate.
Il dottor Gardenia venne sollevato di peso e trasportato al pronto soccorso, dove venne ricoverato per colpo della strega e un principio di assideramento.
Di Torquato e Aminta nessuno ha saputo più nulla.

Sembra però che la popolazione dei ratti di Bellavista sia sensibilmente diminuita da qualche anno.

Invece il grado di attenzione verso i serpenti, nella variopinta e multietnica popolazione dei domestici della zona è rimasto intatto negli anni, e ancora oggi si vedono personaggi con turbante, e biondi polacchi, attraversare velocemente la strada per cambiare marciapiede davanti alla casa del dottor Gardenia.

(Foto di copertina by Alicia Steels_Unsplash)

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.

Il suo ultimo romanzo è La Macchina Anatomica, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo Il Trentottesimo Elefante; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: Animal Garden e Vesuvio Felix, e una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario.

 

 

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