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La Recensione, Dogman

di Ciccio Capozzi

 Dogman. In una periferia degradata che si affaccia sul mare, si consuma la vendetta implacabile di una vittima contro il suo persecutore. Finalmente il regista Matteo Garrone, dopo il capolavoro Gomorra (‘08), poi diventato una specie di prequel dell’omonima Serie tv, ci ha dato un altro film (ITA-FRA, 18) di altissimo livello. Intendiamoci: non che Reality (‘12) o Il racconto dei racconti  (‘14) fossero stati dei brutti film: tutt’altro, specie il primo dei due. Il film del 2008, utilizzando gli stilemi del cinema di realtà, creò un’atmosfera narrativa originale, in cui realtà e finzione si rincorrevano in modalità visionarie e drammatiche, ma ricche di attenzione alle notazioni psicologiche e caratteriali, in una fluidità straordinaria. Si creò non solo uno stile unico e originale, ma una nuova e inesplorata modalità espressiva. Così anche in Dogman, ispirato alle terribili vicende del “Canaro” della Magliana, il regista romano ha reiventato, attraverso uno stile del tutto personale, l’atmosfera dell’episodio.

I fatti erano una cupa storia di periferia, dai risvolti crudeli. Però contemporaneamente ricchi di strani e sotterranei echi umani. Ebbene, Garrone, anche sceneggiatore del film, insieme ai bravissimi Ugo Chiti, anche talvolta regista, e Massimo Gaudioso, che ha sempre e validamente collaborato con Garrone, ha trasformato l’intera vicenda in una favola nera, dai retrosapori addirittura arcani, come è stato detto. Quali sono la potenza e il fascino, nonché la modernità dello scrittore secentesco napoletano Giambattista Basile, per cui Garrone ha voluto trarvi il citato Il racconto dei racconti? Ovvero Lo cunto de li cunti, che è oggi considerato uno dei classici di riferimento in quel secolo, anche se scritto in napoletano. Come in Stephen King, il fantastico e il misterioso, acquistano le stimmate del reale: si confondono nella percezione quotidiana. Con in più, nell’autore napoletano del ‘600, quel senso di potente e irriducibile arcaicità contadina, con tutti i suoi risvolti di ferocia, legato alle tradizioni medievali ancora fortemente incistate nella visione popolare del mondo. Ma la miscela ha sviluppato un’energia narrativa, psicologica ed espressiva, che, prima carsicamente, poi, senza affievolirsi, in modi sempre più storiograficamente consapevoli (si pensi a Benedetto Croce e a Peppe Barra), è giunta fino a noi.

Credo che proprio questo sia il passaggio che ha suggerito a garrone la chiave di volta interpretativa e ha “illuminato” il suo immaginario e dei suoi coautori. Il regista ha più volte dichiarato, infatti, che il film da tempo “covava” in lui, ma non trovava la giusta prospettiva.

Che abbiamo nel film? Una scarrupata Castelvolturno, precisamente la zona oggi del tutto abbandonata e degradata di Coppola Pinetamare, che è la rappresentazione metaforica della Magliana, che per quanto sulla linea dell’Ostiense, è lontana dal mare: qui invece è prossimo. Molte costruzioni sono diventate, per cedimenti nel tempo, degli antri: delle vere e proprie grotte. Sembra un Presepio. Ma senza alcuna tenerezza: anzi, prevale il senso del disfacimento urbano con cui tutti i rimanenti convivono tranquillamente, come se fosse la loro unica realtà.

È una decostruzione ambientale che ha a che fare graficamente col ”rovinismo”, quell’attitudine che segnò l’approccio del grande architetto-incisore settecentesco Giovanni Battista Piranesi nel descrivere sia le “parlanti ruine” delle eredità architettoniche della Roma imperiale ancora vive del suo tempo, che quella più onirica e “misteriosa” (Marguerite Yourcenar) dell’altra sua opera,  Carceri.

L’illuminazione del Direttore della foto Nicolai Bruel esalta questa scelta pittorica nelle sue vedute globali: non dimentichiamo che Garrone ha formazione di pittore. A mio avviso, questa sofisticata organizzazione degli spazi scenografici non è semplicemente figurativa: ma figurale. Dantescamente, anche grazie al mirabile montaggio del bravissimo e navigato Marco Spoletini, utilizza lo scenario come un personaggio che senza alcuna mediazione ci conduce all’identificazione di Castelvolturno/Magliana, come un’unica entità: è qualcosa che “contiene”, approfondisce e rilancia il senso della metafora. E che si concentra nel personaggio di Marcello, che come La mite del racconto di Fëdor Dostoevskij, si avvia a diventare la vittima predestinata: ma che, a differenza di lei, pur facendo addensare quasi con sofferenza dentro di sé la comprensione e la solidarietà con ciò che è fuori di lui, ovvero degli altri, raccoglie l’energia per sottrarsi al dominio di Simoncino.

Marcellino ama gli animali con sincera e accorata dedizione, prova affetto e si dedica a sua figlia, è benvoluto da tutti. Per altruismo cerca di essere amico del grossolano e insensibile suo carnefice, che è un gangster da quattro soldi, crudele, folle, brutale e selvaggio. Che è tale per bestiale noncuranza e egoismo.

Nonostante questo, si pone nei suoi confronti come in una larvata dipendenza. Marcello Fonte, premiato a Cannes ‘18, che è Marcellino, è bravissimo nel costruire le sfumature della sua umanità, mentre Edoardo Pesce, l’altro, compone il suo personaggio a scatti, con un’intensità fisica fosca, furiosa e incontrollabile.

Marcellino è, e si sente parte di quella comunità: ed è Simoncino che gli spezza i legami di socialità, costringendolo a restare solo.

Dogman, per quanto costruito su una rigorosa riflessione sociale e ambientale, non “dà lezioni” di niente. Analizza e si concentra sulle linee di sotterranea psicologia che attraversano i personaggi: non solo i due, anche gli altri del “coro”, che si muovono come in una comunità lunare, ma ancorata e parte quasi solidale, grazie al rito del calcetto, di quello sfasciume. Questa società che è, in vitro, “l’intera società” dei nostri giorni: dove tutti viviamo come chiusi in una bolla che crediamo essere la vera e unica realtà sociale che ci circonda e ci condiziona.

È impressionante la capacità del regista di legare assetto descrittivo metaforico e simbolico generale, con la individualità e il realismo dei singoli personaggi, compresi quelli “di contorno”. Tra essi merita segnalazione quello della madre di Simone, l’attrice Nunzia Schiano, in un ruolo intenso, ma giocato con grande, disperato e sotteso equilibrio drammatico.

 

Ciccio Capozzi, già docente del Liceo Scientifico

porticese Filippo Silvestri, è attualmente

Direttore Artistico del Cineforum

dell’Associazione Città del Monte|FICC al

#Cinema #Teatro #Roma di Portici.

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