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La Recensione, L’atelier

di Ciccio Capozzi

L’atelier A La Ciotat, vicino Marsiglia, dove una volta c’erano imponenti cantieri navali, Olivia, affermata scrittrice, tiene un seminario estivo di scrittura a dei ragazzi di periferia. Tra di loro Antoine, pur dotato di talento, mostra insofferenza alla disciplina e all’accettazione degli altri.

Il film L’atelier (FRA, ‘17), regia di Laurent Cantet, è anche da lui scritto insieme a Robin Campillo: a sua volta, quest’ultimo, di origini marocchine, che spesso ha collaborato col regista, ha diretto lo sconvolgente e celebrato 120 battiti al minuto sul problema dell’AIDS, e sulla sua misteriosa, pericolosa e silenziosa rimozione cui stiamo assistendo, che nel ‘17 fu premiato a Cannes. Cantet nasce e si forma come documentarista; e questo suo approccio alla realtà ha strettamente caratterizzato e personalizzato il suo cinema. Sia nelle modalità di scrittura e di stile adottati, che soprattutto nelle scelte tematiche. Ha ricevuto importanti riconoscimenti in patria e all’estero per due film: Risorse umane (‘99), che fu premiato come sua opera prima, anche se fu preceduto da un titolo del ‘97, e A tempo pieno (‘01). In quelle opere si affrontavano tematiche riguardanti la dimensione del lavoro e dei rapporti sociali, al di fuori di ogni moralismo e di quelle idee preconcette, di stampo genericamente buoniste e filo operaie a buon mercato. Ma, come nel successivo, riuscito e anch’esso pluripremiato La classe/ Entre le murs (‘08), la presa d’atto dei problemi che attraversano la ricollocazione delle classi che una volta si definivano subalterne, passa attraverso la ricomposizione di un puzzle sociale che si è definitivamente rotto, e in cui le idee-guida mancano; e queste venendo meno, è assente la stessa soggettività sociale.

E ognuno, anche e soprattutto se povero e/o emarginato, è incapsulato nell’isolamento e ignoranza di massa, senza nessuna possibilità di ricollocarsi socialmente, in un tessuto identitario aperto e propulsivo, che dia un senso culturale al suo futuro. Ciò che facevano le grandi narrazioni politiche del secolo scorso. Oggi non resta che entrare nella pseudo community dei valori del consumismo, sia esso digitale e/o materiale, più becero e frastornante. O rifugiandosi in un ribellismo simil-religioso senza orizzonte, ma solo distruttivo e senza scampo. O nella pura criminalità.  La qualità autorale degli autori in L’atelier è stata quella di domandarsi, al di fuori di ogni cliché e rimpianto sterile e residuale di una dimensione alternativa che non c’è (più): perché un Antoine, il vero protagonista del film, ragazzo delle periferie “resistenti”, benché senza futuro, di una città ex operaia, sensibile, intelligente e tendenzialmente talentoso, che ama i bambini, immerso, ma non istupidito dalla realtà contemporanea, simpatizza con le idee di destra? Perché prova quel senso di contrarietà verso ogni elemento diverso e nuovo, fino ad arrivare a forme di aggressività razzista? Perché è pervaso da un senso distruttivo così imperativo e violento? Ebbene, questo è il ritratto dei ragazzi delle nuove periferie. Quelli che in ambienti una volta votanti à gauche, oggi sostengono Front National, se non organizzazioni più a destra. Perché la dissoluzione dei Partiti socialdemocratici, e la loro lenta, ma inarrestabile trasformazione in corìfei della globalizzazione e sostenitori del finanzcapitalismo (Luciano Gallino), li ha resi sostenitori dei diritti individuali, ma ha fatto perdere ogni interesse per quelli sociali. Perché questa fase della vita civile, dell’intera Italia e non solo, in cui viviamo, è una postdemocrazia (Carlo Formenti), in cui le “vecchie” pretese riguardanti salari, welfare, lavoro e democrazia reale, sono considerate “obsolete”, e non più oggetto di trattative o azioni collettive.

È chiaro che Antoine, in modi confusi e postati sulla funzione quasi biologica del ribellismo, avverte questo profondo malessere. Gli autori fanno emergere tali contenuti dai serrati dialoghi, molto ben scritti, tra tutti partecipanti al workshop; in particolare tra lui e la docente. Che è un’intellettuale proveniente da quegli ambienti radical chic, di buoni sentimenti e orientati verso le classi subalterne: ma in termini generici e sostanzialmente sterili; se non coperti da condiscendenza e pretese paternalistiche. L’attrice francese, ma anche di origini italiane Marina Foïs, offre una personale caratterizzazione con molte sfaccettature: c’è un senso di attrazione sotterranea per il ragazzo, ma la regia riesce a non banalizzarlo. Il suo rapporto coi discenti è vivo e articolato in molti segmenti veloci: li ascolta e si interfaccia collettivamente col gruppo, grazie ad un eccellente gioco di montaggio (la scafata Mathilde Muyard). Come anche, sempre per il montaggio, abbiamo il senso vivente della cittadina che li ospita: davvero avvertiamo come presente, attraverso la memoria e le testimonianze viventi, quel senso ricco di storia di una realtà di lavoro oramai consegnata alla storia. Del resto, come ha dichiarato il regista, il punto di partenza è stato un vero laboratorio, però di cinema, da lui messo in piedi coi ragazzi di periferia: di questa esperienza ha mantenuto la freschezza e la felicità nel tratteggiare quell’essenza di empatia corale che caratterizza non banalmente  la  comunità. E da cui non si sottrae, nonostante le apparenze, Antoine (il belloccio e tenebroso, ma contemporaneamente aperto Mathieu Lucci): in lui lasceranno dei semi che lo porteranno a maturare. E anche il rapporto, assai difficile con la prof, lascerà dei segni positivi sulla sua natura: lo aiuterà a abbandonare la violenza e accettare non passivamente forme di socializzazione. Tuttavia tali sviluppi si avvertono per successive interiorizzazioni: che lasciano quasi il ragazzo in situazioni di dilemma assai forte. Non è una comprensione di sé lineare, hollywoodiana, ma quasi per scossoni e con molti back return: come è normale che sia uno sviluppo e una crescita di sé all’interno di forti conflitti. Ma la fiducia nel suo talento e intelligenza è l’elemento psicologico dinamico trainante, molto ben centrato dallo script del film.

Ciccio Capozzi, già docente del Liceo Scientifico

porticese Filippo Silvestri, è attualmente

Direttore Artistico del Cineforum

dell’Associazione Città del Monte|FICC al

#Cinema #Teatro #Roma di Portici.

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