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La Riflessione, Perduti nei quartieri spagnoli

Il romanzo di Heddi Goodrich ha molti piani di lettura, ma soprattutto Perduti nei quartieri spagnoli è l’immenso palcoscenico quale è Napoli 

di Ettore Sannino

Finendo di leggere il libro di Heddi Goodrich, Perduti nei Quartieri Spagnoli, Scrittori Giunti, ho provato infinite sensazioni.

Il primo bisogno che ho avuto è stato quello di accarezzare il volume, un segno di gratitudine verso un libro ed un’autrice che per tutto il tempo della lettura mi hanno fatto vivere emozioni intense.

Gratitudine ed un senso di vuoto, di addii a fatti e persone che sai non rivedrai più ma che ti sono appartenuti durante il loro percorso, sensazioni analoghe a quelle che si vivono nel racconto quando, poco per volta, le case degli studenti nei Quartieri Spagnoli si svuotano.

È un romanzo corale in cui troviamo gli interpreti principali, i veri protagonisti della storia, affiancati da comprimari tratteggiati in maniera nitida, di diversa provenienza, cultura, tipologia, tutti pienamente e vividamente interpreti dei loro ruoli, nessuno che prende il sopravvento sull’altro, capaci di apparire e scomparire per riempire il luogo scenico del momento.

Poi ci sono gli inquilini dei palazzi, i commercianti dei vicoli, i ragazzini sui motorini, i malavitosi, tutti personaggi che descrivono la napoletanità nelle loro sfumature, con il loro folclore, il loro linguaggio, sia verbale che gestuale e tutt’intorno questo immenso palcoscenico della città di Napoli, descritta con occhio disincantato, mai plagiato dal profondo amore dell’autrice per questa città.

Una Napoli rumorosa, colorata, profumata di salsedine e pregna degli odori delle salumerie e allo stesso tempo maleodorante, sporca, trasandata.

Una Napoli solare e, allo stesso tempo incupita dal buio dei bassi e dei “piani bassi” dei palazzi, dove il sole non arriva mai.

Una Napoli umida, bagnata, arida, assolata, bollente, sferzata dal vento freddo d’inverno e dai venti africani d’estate.

Una Napoli che si desidera abbandonare ma non si riesce a lasciare. Una Napoli verace, mai trattata con benevolenza, ma spesso con ammirazione.

La lettura si dipana lungo una storia d’amore, amore per una città dolente ed ammaliatrice ed amore per un giovane, silenzioso e, per questo, ammaliatore.

Pietro non è un uomo di molte parole, viene dalla terra, dal sud profondo ed appenninico, un sud crudele, fatto di regole scolpite ovunque nella natura, che non si possono mettere in discussione, che vengono tramandate di generazione in generazione, legate a cose concrete, la terra con i suoi tempi obbligati del raccolto, la macinatura del grano, la premitura delle olive, la vendemmia, l’uccisione del maiale.

Cose concrete, che vanno fatte, obblighi a cui non ci si può sottrarre, pena l’esilio, l’esclusione dal possesso, del tramando della roba, non nel senso pirandelliano del possesso fine a sé stesso, ma secondo una genealogia chiara, scolpita, tatuata idealmente sulla pelle e non a caso ritrovata incisa in tal modo nel nuovo mondo, su una donna di cultura e razza lontanissima ed allo stesso tempo vicinissima, in cui cambia solo il concetto di appartenenza.

Una storia d’amore in cui si scontrano due culture diverse, quella della viaggiatrice globe trotter, senza l’idea di casa, di famiglia e senza di fatto averla e quella del contadino futuro proprietario terriero e di case, con una famiglia chiusa, dove il filo che unisce tutti i legami familiari non è l’amore, ma il possesso, che necessariamente richiede che il passaggio di proprietà sia scandito dalla morte.

Due modi di amare incompatibili, inconciliabili, inavvicinabili che, per potere esistere e resistere, richiedono che uno si annulli nell’altro, necessariamente. E dolorosamente, passando attraverso silenzi, fughe, omissioni, bugie, si consuma la fine di questo amore, dapprima con liti, sofferenze, incomprensioni, paure, incubi e poi  con la consapevolezza dell’ineluttabilità, con Pietro cosciente di perdere, ma incapace di reagire ed Heddi che con dolore affronta la rottura.

 

Un dolore che traspare in ogni pagina del libro, raggiungendo punte di lirismo immense, un dolore che si palpa con mano, che chi legge vive intensamente, provando rabbia per lei che si ostina ad amarlo nonostante l’evidenza dei fatti, e livore per lui, incapace di vedere, reagire, lottare, per un sentimento così puro e totale, unico ed irripetibile.

Ognuno di noi diventa Pietro, scopre quanto avrebbe desiderato di essere amato così, quanti rimpianti per non avere trovato o magari perduto un amore così.

Heddi infine abbandona il dolore, abbandona Napoli, abbandona Pietro, abbandona apparentemente il lettore, lasciando il vuoto della domanda: Come si può sopravvivere a tanto dolore?

In realtà Heddi travasa il suo dolore in dolori più piccoli: andando via riesce a sopravvivere. La lasciamo in partenza per gli Stati Uniti e la ritroviamo dall’altro capo del mondo, in Nuova Zelanda, affranta dal dolore della quotidianità, sopravvissuta ma devastata, senza progetti, senza una vita concreta, volutamente sopraffatta dai problemi del quotidiano, come in una specie di fuga catartica dal dolore cosmico.

Ma Heddi è sorprendente, perdona Pietro, perdona di fatto tutti noi per il nostro disamore, inizia un rapporto epistolare in cui si mette a nudo e fa mettere a nudo lui, lo giustifica, lo spoglia di ogni aspetto fiabesco ed in qualche modo rinasce, ma lo fa principalmente per dare a lui un senso, per dare a lui il senso della sua vita e come una fata buona lo libera, anche se solo materialmente, da quel legame morboso, consapevolmente custode della sua capacità di amare, o almeno di avere amato così profondamente, non potendo però impedirgli di provare a sua volta un eterno ed ineluttabile rimpianto.

Questa è la storia, di per sé già poderosa e bastevole a dare a questo romanzo il carattere di qualcosa di unico, speciale, epico. Ma questo romanzo ha molti piani di lettura, perché la bellezza dei personaggi che fanno da contorno a questa storia è unica, sono persone che Heddi ama, comprende, soccorre, vive e condivide i loro mondi. Sono imprescindibili anche se non appartengono tutti alla storia, ma le danno una coreografia degna. Ne fanno eccezione Gabriele e Luca, che occupano un posto speciale nel grandissimo cuore di Heddi.

Poi c’è il linguaggio, spaventosamente ricco, un vocabolario colto e geniale, capace di metafore stupende, descrizioni quasi pittoriche, immagini onomatopeiche di rara bellezza ed intensità, che raccontano i colori di tutto ciò che è nella storia: il sole, il mare, il cielo, la campagna, gli alberi, i paesi, le case, le strade, le persone, gli odori, i sapori, i sentimenti.

Insomma, un libro da leggere tutto d’un fiato, pressati dal ritmo intenso della storia, ma lentamente, con cura, prestando attenzione ad ogni pagina, ad ogni rigo, ad ogni parola, per scoprire quello che c’è nascosto dentro e dietro, quello che vuol significare per chi scrive e che può significare per chi legge. Ed alla fine per scoprire che siamo tutti un po’ innamorati di Heddi.

 

Ettore Sannino, nato a Napoli, vissuto a Portici, attualmente vive a Caserta. Neurochirugo, opera in ospedale. Scrittore appassionato e fecondo, ne 2022 ha pubblicato il suo libro d’esordio, “Un possiile senso della vita, Graus Edizioni. una di racconti.

 

Dice di sé: Cresciuto scienziato in una famiglia di umanisti, mio nonno che era scultore e pittore diceva che ero incapace persino di fare la lettera “o” col bicchiere e se ne rammaricava.

Ma anche se non condivido assieme al suo nome il suo talento con pennello e scalpello, la mia passione è altrettanto artistica: scrivere, e mi accompagna dai tempi del liceo, quando qualsiasi tema in classe per me era l’occasione per un racconto, l’incipit di una storia. Perciò eccomi a voi, come sono, venendo dal nulla, pronto a tornare nel nulla e sperando di non essere nulla più che uno a cui piace scrivere

 

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