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Shining torna al cinema, la recensione

di Renato Aiello

NAPOLI. Mentre nelle sale imperversa il fenomeno It, campione di incassi dopo Annabelle 2 la creazione in questo finale d’annata cinematografica, per la notte di Halloween e il ponte di Ognissanti c’è stato un gradito ritorno al cinema.

Un film diventato un classico di tutto rispetto – nonostante alcune, ma poche, voci fuori dal coro, come quella recente di David Cronenberg -, che andrebbe proiettato più spesso in sala, unico habitat ideale per un capolavoro che ha attraversato i decenni e conquistato cinefili di ogni generazione: Shining di Stanley Kubrick, nella sua versione europea di 119 minuti, l’unica distribuita nel vecchio continente per volontà dello stesso regista.

L’horror di Kubrick è stato preceduto dal corto di 7 minuti Work and Play di Matt Wells, ispirato alla pellicola immortale e annunciato sul web, sui social e nel nuovo trailer diffuso a ottobre. Un’anteprima che però stranamente non ha riguardato le proiezioni all’Happy Maxicinema di Afragola, uno dei multiplex della Stella Film, il circuito che ha accolto il film a Napoli e provincia, distribuito a sua volta da Nexo Digital per l’occasione in tutta Italia.

Poco importa davanti all’opportunità di riscoprire in sala quello che tutti definiscono il più grande film dell’orrore mai realizzato, e tra i più terrificanti in assoluto (la scena delle gemelle e del loro omicidio visto dal bambino è da sempre in cima alle liste e alle top ten delle scene più paurose al cinema). Eppure dargli un’etichetta, o ascrivere Shining a un genere, sembra quasi riduttivo per un cineasta che ha riscritto l’estetica cinematografica del Novecento, spaziando tra i generi senza specializzarsi, da vero maestro.

Nei film horror abbondano omicidi, spargimenti di sangue mentre nell’opera più sottovalutata di Kubrick figura un solo assassinio (quello del cuoco nero con la luccicanza, venuto a salvare il bambino) e il sangue esce solo dal mitico ascensore dell’Overlook Hotel, ma è una visione, così come quella delle bambine fatte a pezzi, e alternate nel montaggio al primissimo piano sugli occhi sgranati di Danny Torrance.

Questo perché Shining è uno psico-thriller, un horror psicologico tutt’altro che canonico, che pesca nell’inconscio collettivo per restare impresso nel nostro, alimentando magari notti insonni. C’è qualcuno che lo ha definito addirittura un film sui genocidi e sullo sterminio degli indiani d’America, e per esteso sulla Shoah: teorie supportate da un documentario di qualche anno fa dal titolo Room 237, passato a Cannes, che si basa proprio sulle interpretazioni freudiane e storiche insite nelle molteplici chiavi di lettura del film.

La storia è nota e molto semplice: una famigliola decide di trascorrere il terribile inverno del Colorado nell’albergo della cui manutenzione dovrà occuparsi il padre (un maiuscolo Jack Nicholson, mai così sopra le righe nella follia omicida di Jack Torrance). La permanenza nella struttura, costruita sui resti di un antico cimitero indiano, sarà costellata da allucinazioni, visioni di sangue e morte, serate con i fantasmi della Gold Room, chiacchierate con baristi e camerieri ambigui, scontri tra marito e moglie e il misterioso ingresso di Danny nella stanza 237, vera chiave di volta dell’intera narrazione. Da lì infatti sarà una vera discesa agli inferi per il piccolo e per sua madre (Shelley Duvall, costretta a ripetere la scena della camminata all’indietro per un numero considerevole di ciak, come solo Kubrick poteva permettersi).

Fino all’epilogo finale, con la corsa nel labirinto che rende il racconto il primo film epico del genere horror. Impossibile non riconoscere la tragedia di Edipo che uccide il padre e il mito di Teseo e del Minotauro, amplificato dai versi e dagli sguardi ferini di Jack e da un manifesto nella sala dei giochi dell’albergo che ritrae uno sciatore con postura e silhouette da toro.

Un incubo lungo due ore che è anche riflessione sulle vittime della Storia, che siano esse gli indios (l’hotel è tappezzato di simboli e motivi indiani, nonché da apparizioni e scomparse improvvise di tappeti, sedie e oggetti, da brava casa infestata), o gli ebrei d’Europa. Sul destino di questi ultimi Kubrick dedicò molto tempo e ricerche per Aryan Papers, film sull’Olocausto la cui stesura iniziale condusse il regista a una profonda depressione. Il film non fu mai realizzato, proprio come quello su Napoleone, e la scusa fu l’uscita in sala di Schindler’s list di Spielberg. Un vero peccato per i fan del genio indiscusso della settima arte nel XX secolo.

 

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