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Figli di Portici famosi: la poetessa Adelaide Angelica Lucangeli

di Stanislao Scognamiglio

Si sente spesso parlare di personaggi di Portici per nascita o d’elezione dei quali si sta perdendo la memoria … Ritengo perciò doveroso ravvivarne memoria fornendo un breve profilo biografico tratto dal mio inedito Diario; avvenimenti, cose, fenomeni, uomini, vicende.  Portici e Vesuvio dalle origini a oggi, con il conforto di Autori di ogni tempo.

Adelaide Angelica Lucangeli è nata in Roma, nel 1791.

È stata figlia unica di Carlo Lucangeli, architetto romano, e di Bernandina.

Educata alle lettere dal padre gesuita, storico e studioso di letteratura, di origine catalana Juan Francisco Masdeu (Palermo, 1744 – Valencia, in Spagna, 11 aprile 1817) «… fin dalla prima età dettò leggiadri versi».

Cultrice delle muse, poetessa, arcade, ha avuto quali motivi ispiratori «… la Virtù, la Filosofia, l’arte teatrale, la religione, la fede, la rettitudine dei giuramenti, il matrimonio».

Le sue poesie, belle di forme, sono state soggette «… alle rime di egregi uomini — Lo Sterbini, Vincenzio Moreno, Francesco Berengher, Erasmo Pistoiesi, Genoino, Roberti, Cerutti, e tra le donne Rosa Taddei.  E della Rosa Taddei, della Dionigi, della Saluzzo fu contemporanea , e recitò nelle Accademie Arcadica e Tiberina, allora in fiore».

I suoi versi hanno riscosso «… nel Giornale arcadico di Roma, scritto da illustri romani una menzione onorevole, ed in quelli di Napoli, dove passò gran parte della sua vita».

Molto stimata dal poeta, drammaturgo e accademico Vincenzo Monti (Alfonsine, Ravenna, 19 febbraio 1754 – Milano, 13 ottobre 1828) è stata in stretta corrispondenza con illustri letterati del suo tempo: «…  Giovanni Gherardo de Rossi, Francesco Berengher, Aroux, e moltissimi altri».

In campo politico, ha nutrito idee più legittimiste che democratiche, però, «… ella intendeva il legittimismo assai virtualmente, e si aspettava sempre nei Re legittimi Federico il Grande, S. Luigi di Francia, Enrico IV, Giuseppe II e Carlo III — Sciagura che i re dell’epoca nostra non sian questi». Ciò nonostante con varie poesie ha reso lode a dei sovrani.

Leggiadra giovinetta, a Napoli, ha contratto matrimonio con il cavaliere Paolo Dalbono, ispettore generale delle poste di Napoli, dalla cui unione ha avuto quattro figli: due morti prematuramente, due sopravvissuti: Cesare (Roma, 1812 – Napoli, 29 maggio 1889) e Carlo Tito Dalbono (Napoli, 2 gennaio 1817 – ivi, 2 novembre 1880).

Pur colpita dalla sventura di averne visto morire due, non s’è inasprita, assecondando il destino avverso, anzi per essere stati, il primo valente letterato e il secondo storico, romanziere  e critico d’arte, può senza dubbio alcuno, essere stata «… madre di bella prole, che dà speranza d’imitarla ne’ suoi pregi tutti».

Pur avendo sempre goduto di florida salute, «… il suo cuore avea sempre balzato oltre il regolare del sistema cardiaco negli affetti, ne’dolori, nelle ansie della vita».

All’aggravamento dell’afflizione cardiaca, pur non amando la campagna, «… sperimentò i dintorni campestri, per domare i tormentosi battiti, e quei dintorni campestri che in gioventù le portavano malinconia, coll’andar degli anni le recaron ristoro».

Perciò è stata spessissimo a Portici, risiedendo nella villa che il figlio Carlo Tito Dalbono ha fatto erigere all’ombra del Vesuvio.

All’età di 63 anni, pur presentando «ancora i capelli biondi, i denti bianchissimi e una carnagione incantevole», colpita da prolasso cardiaco, la poetessa Adelaide Angelica Lucangeli in Dalbono è trapassata in Napoli, il 4 gennaio 1856.

A Portici, dedicandoli alla cittadina che l’la accolta, il 15 ottobre 1846, ha scritto i seguenti versi:

Di solinga magion cui cerchio intorno

Fan lieti campi, io stommi in sul verone.

Splende il pianeta, ed a’ miei guardi espone

Mille bellezze ond’è quel suolo adorno.

Prati, colline, appiè di queste un orno

Che i rami in giro a un casolar dispone,

Il mar che l’astro ingemma in varie zone,

E fugge il lido e al lido fa ritorno.

Mi volgo a manca – oh ciel cambia la scena…

Scaglia il Vesèvo dall’abisso interno

Roventi massi, e il ciel tuona e balena.

Ah! Che in sì opposte visioni io scerno,

Virtude ed empietà, compenso, e pena –

L’Eden beato ed il supplizio eterno!

Ma più tardi ella svelava a se stessa come

Immezzo agli agi di magion ridente

Ove forse a bramar più nulla resta…

S’invoca la suprema ora funesta

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