Cultura

La recensione, Agnus Dei

di Francesco “Ciccio” Capozzi

Dicembre 1945. Polonia. Un gruppo di suore in un convento chiede aiuto ad una dottoressa della Croce Rossa francese: sono state violentate da nazisti e sovietici e alcune di loro sono incinte.

Il film Agnus Dei (FRAN-POL, ‘15) è da tempo fuori dai circuiti commerciali: uscito a fatica, cioè su pochi schermi, nel novembre del ‘16, è restato solo in sale d’essai, ed è stato riproposto, nel corso del ‘17, da qualche Cineforum cittadino (ah Fantozzi e la Potemkin!). Però è uno di quei film di cui “bisogna” parlare per tentare, almeno, di sottrarlo all’oblio, e consegnarlo alla memoria della riflessione critica, anche se futura.

Agnus Dei, un bellissimo film. La regista è la francese Anne Fontaine, nata nel ‘59. Era considerata un’apprezzata professionista, tipicamente francese, con una vocazione di solida pittrice di atmosfere familiari, dall’apparente riuscita sociale, poi puntualmente messa in crisi. La Fontaine ha fatto qualche puntata nella commedia: suo è il simpatico e raffinato Gemma Bovery,’14, con la splendida Gemma Arterton,   ma questo film del ‘15 rivela una piena maturità di autrice di alto e più deciso livello.

Già la materia, ispirata ad una storia vera, era piuttosto difficile, e soprattutto scabrosa. Sarebbe stato facile cadere o nel mélò o nella facile critica alle istituzioni cattoliche. Uno dei timori che insanguinava il cuore delle povere sorelle, era il fatto che ci sarebbe stato nei loro confronti, benché vittime innocenti, un crudele e cinico ostracismo, che le avrebbe portate fuori dal Convento, cacciate come reprobe. Per loro non ci sarebbe stata pietà. E questo è un dato.

Per quanto paradossale e inconcepibile, dati i pregiudizi sulla donna in generale e sulla donna votata in particolare perfettamente comprensibile, anche se ingiustificabile, contro ogni umanità e misericordia. E di cui erano assolutamente consapevoli. E non è un argomento relegato al passato, o campato in aria: più di una commentatrice del film ha documentato che durante la guerra in Bosnia degli anni ‘90, anche furono violentate numerose suore: ebbene, queste furono allontanate dai conventi, nel silenzio della Chiesa ufficiale.

Si trattava di trovare il giusto punto di vista narrativo, che tenesse insieme la particolarissima atmosfera che circonda la vita associata delle suore nel convento, la loro soggettività cultural-religiosa, le loro scelte di vita e la durezza della situazione.

Il punto di vista è quello della protagonista, la dottoressa Mathilde (l’attriceLou de Laàge, assai espressiva e vitale) che per puro caso incontra quei destini e sceglie con fermezza e se ne fa carico. Il suo è un punto di vista laico, però aperto e dialogante: da donna nei confronti di altre donne, si pone il problema del loro destino, nella sua interezza. Con semplicità, sorellanza, ma anche profondo rispetto delle condizioni particolari e soggettive del vivere di queste donne. A dirla con Gustavo Zagrebelski, il suo, nei confronti di quell’ambiente così “altro” non è un processo di integrazione, ma di interazione: la differenza è solo una “g”, ma …

La sceneggiatura di Sabrina B. Karine e Alice Vial – tutte e due alla prima opera di rilievo – ma cui hanno collaborato la stessa regista e un esperto volpone come Pascal Bonitzer, ci restituisce con tocchi leggeri ma incisivi e ben definiti una comunità viva e diversificata, fatta di persone non genericamente individuate: nonfigurine in veste nera. Appare invece una pluralità di situazioni e caratteri, come è fisiologico che sia, in una collettività di quel genere, in cui si incrociano motivazioni, situazioni e scelte anchedi vita successiva, le più disparate e complesse. Le personalità che emergono con più forza e stratificazioni caratteriali, sono quelle di suor Maria,  la vicebadessa, ma che ha più esperienza di vita, compresa quella di coppia: l’attrice polacca Agata Buzek, di grande carisma e duttilità umana e religiosa, conosciuta anche fuori dei suoi confini (tra l’altro è un femminone di un metro e 72…).

Accanto a lei c’è la dura badessa, ma concentrata sulle sue responsabilità, l’attrice teatrale Agata Kulesza.  Nel film la sua è la più convincente e forte prova. Il suo è il ruolo più difficile e complesso: sulla sua coscienza grava ilpeso terribile di un gesto estremo fatto per salvare l’intera comunità. È un’attrice diplomata alla prestigiosa Accademia di Teatro di Varsavia: colta e preparata, ha affrontato testi e film difficili e anche controcorrente. Ma è anche assai popolare in patria: lo è ancor di più ora che ha partecipato, con spiritosa verve, all’edizione polacca di Ballando sotto le stelle. In Italia è stata vista e molto lodata per la sua intensa partecipazione a Ida (POL, ‘13) di Pawel Pawlikowski, Premio Oscar per il Miglior Film Straniero 2015.

In Agnus Dei, grazie alla curata gestione della regista, si respira anche un’atmosfera religiosa: fatta di canti, ma soprattutto di gesti quotidiani, ripetuti e rivissuti da persone che si sentono chiamate a quel tipo di vita e vi si sentono immerse, ognuna come parte individua di un tutt’uno, che vive e prega all’unisono, con semplicità e abnegazione. Non c’è una vera e propria riflessione sul misticismo, ma la considerazione di una dimensione intensamente spirituale, che è percepita consapevolmente come propria e unica da queste donne nella loro identità collettiva. E cui la laica Mathilde si accosta con rispetto e pudore: ciò è ben esemplificato in un bellissimo piano-sequenza, in cui si trova a condividere un attimo di tregua, mentre sono in una specie di salotto a suonare il piano, conversare, giocare a dama, stare semplicemente sedute ma viste tutte insieme, in un afflato di pura ma forte solidarietà sorerna. e lei le osserva sorridevole, e piena di empatia e ammirazione per queste donne votate ad una scelta così difficile. Sentimenti peraltro ricambiati con tenerezza e amore per lei.

Agnus Dei è scandito da un montaggio, di Annette Dutertre, che ha già lavorato con la regista, che aiuta a suggerirci un’atmosfera di un solenne, ma teso procedere narrativo, pur entro gli spazi molto delimitati del convento. Incrementa la funzione drammatica del rapporto tra le sorelle e il loro sentirsi assediate dalle istituzioni esterne: dai “liberatori” sovietici, ma anche da tutta la società polacca, che ha difficoltà ad accettare un ruolo diverso dagli schemi prefissati per la donna, quale che sia il suo ambiente cui è consegnata.

Di grande qualità la fotografia, diretta dalla brava e sperimentata Caroline Champetrier: sembra in B/N, ma è invece di un colore desaturato, che fa “scoppiare” la forza del contrasto del bianco abbagliante della neve, con gli interni color pietra. E ciò suggerisce una funzione di forte antitesi drammaturgica tra il silenzio, inteso come dimensione di vita, e il dramma delle loro difficoltà, che ivi si svolge. Anche se il sottofinale, nel darci speranza, ha un sapore di beffa collettiva che queste sante donne hanno saputo mettere in essere, con molta intelligenza e spregiudicatezza, per salvare sé e i loro pargoli, e i tanti bambini orfani di guerra lì attorno.

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