Cultura

La Recensione, Dunkirk

di Francesco “Ciccio” Capozzi

La settimana dal 27 maggio al 4 giugno 40 fu cruciale:  intrappolati a Dunkerque, in Francia, c’erano 400mila soldati inglesi e francesi, a tiro dei nazisti. Il trasbordo miracoloso di circa 340mila di questi in Inghilterra, preservò, nonostante la sconfitta, le sorti successive della II Guerra.

Il regista e sceneggiatoreinglese Christopher Nolan, da tempo, in particolare dopo la trilogia di Batman-il Cavaliere Oscuro, riconosciuto universalmente autore se non Maestro del cinema, ha realizzato Dunkirk, questo grande film storico (USA-UK-OL-FRA, ‘17) su un episodio assai importante della storia del secolo scorso.

Non a caso il titolo è la lettura inglese del toponimo francese: volendo mettere in evidenza la particolarità dell’approccio e del punto di vista. Dati peraltro dalla soggettività “dal basso” di un soldatino inglese bloccato (l’attore Fionn Whithead), come tutti i suoi commilitoni, su quella spiaggia, in attesa di un destino di prigionia o morte. Data l’impossibilità di essere trasportati sulla pur vicina Inghilterra.

Assai significativa è la sequenza in cui il ragazzo ascolta ciò che i massimi responsabili militari stanno dicendo sulle difficoltà della ritirata: è lui ad “introdurci”, stendhalianamente, nel senso della “grande storia”. Fino a quel momento noi abbiamo assistito ad un caotico spostamento di soldati, scontri con nemici invisibili, ma implacabili e spietati come gli incubi, sempre pronti a colpire, dovunque e senza che sia possibile ripararsi e rispondere.

Solo in un secondo momento, sempre seguendo lo sguardo e i movimenti di questo ragazzo in uniforme, a fatica, ci rendiamo conto, in una grande visione complessiva, dell’estrema difficoltà dell’esercito inglese e dei resti di quello francese in rotta.

È proprio lo stesso autore che ha padroneggiato la complessa stratificazione, e perfino multipolarità della fantasia, e del suo labirintico intersecarsi nell’immaginario individuale, e del suo fascino, nel bellissimo, originale e misterioso Inception (‘10), a definire, con altrettale nitore concettuale, il rapporto col reale storico del presente film. Nolan ha dichiarato: «La realtà (…) ha un tempo tutto suo: dilatato, dolce e frantumato. Ti obbliga a vedere ogni suo aspetto, sia pur contraddittorio». Ed è questa la chiave stilistica.Che lo differenzia dai grandi film di Hollywood che sulla II Guerra hanno formato l’immaginario planetario: cioè da Salvate il Soldato Ryan di Steven Spieberg e La sottile linea rossa di Terrence Malick; tutti e due del ‘98.

Dal primo spielbergiano Dunkirk si differenzia soprattutto nello stile, che appare sospeso tra le dimensioni di “cielo, terra e mare” – come ha detto il regista – che sembrano “ragionare” quasi prescindendo dai destini singoli. In realtà la genialata della regia è che dall’insieme della narrazione si manifesta una dimensione che noi avvertiamo come ritardata rispetto ai tempi reali delle azioni drammatiche che pure avvengono. È come se i tempi fisici si riavvolgessero continuamente su loro stessi. Ovvero sulle modalità concrete, quasi dissociate, di percezione, attraverso questi, degli eventistessi elaborati dagli uomini che stanno “vivendo”, nelle apparenze del subire, in maniera disordinata e parcellizzata, il loro combattere e/o fuggire.

È chiaro che questa è la cifra concettuale personale, direi ontologica sul tempo e lo spazio,dell’autore di Inception, eprima ancora di Memento (‘00) e che, segnatamente, è stata oggetto di un’accurata riflessione fisica (ispirata al tempo “quantico”) e filosofica di Interstellar (‘14).

In questo senso “rallentante” cinematografico dei tempi reali, c’è un rapporto con l’altro regista: Malick. Però quest’ultimo se ne serve in una chiave squisitamente e quasi esclusivamente lirico-poetica che, anche se ha dato dei capolavori,  talvolta, specie negli ultimi film, appare fragile e fine a sé stessa. Mentre la freskura di Nolan è che tutto l’ambaradam di cotanto penzieropenzato non si sovrappone pallosamente sul fluire spettacolare del film ma vi si riesce ad innestare con magica semplicità, direi quasi.

E ciò avviene perché l’energia narrativa del regista convoglia nella sua sceneggiatura questa grande tensione soggettiva, con determinazione, coerenza e forte consapevolezza mirata,sulla chiara finalità tematica, in sé storico-valoriale del film. Quella di ragionare in modo non schematico sull’episodio, assai importante, della II Guerra, cogliendone aspetti politici rilevanti.

Soprattutto quello di forte e strenuo segnale di esemplare e popolare resistenza democratica di fronte all’incalzare del mostro nazista, che proprio in quel momento sembrava realmente invincibile. Fino a trasformare nel cuore, cioè nell’immaginarioe nella stessa memoria storica del popolo inglese, galvanizzato dalle bellissime parole di Winston Churchill, quanto mai energiche e appropriate, questa rotta, in una vittoria strategica, tesa al futuro. E in cui l’aspetto preminente è il senso di speranza, come dice splendidamente nel sottofinale l’attore Kenneth Branagh, quasi sospirando.

In particolare è da mettere in evidenza l’uso del montaggio, curato dall’australiano Lee Smith, ma da tempo operante a Hollywood e lungamente collaboratore di Nolan: insieme hanno costruito l’uso del tempo di Inception. Ma qui è ancora più evidente il lavoro di elaborazione: attraverso suture anche sottili, hanno scompaginato la linearità e ricomposto le situazioni narrative. Noi ce ne rendiamo appena conto, ma vi sono diversi “ritorni” e scomposizioni/ricomposizioni dei piani temporali nel film del film: raccordati in modi visualmente morbidi, non violenti, ma chiari, tali da chiudere le vicende dei singoli personaggio e gli sviluppi delle diverse situazioni. Come gli episodi riguardanti i duelli aerei e, in particolare, quello riguardante il pilota, interpretato da un asciutto e antiretorico Tom Hardy, che salva la fase finale dei trasbordi. Che avvengono, e ne sono la cornice aerea, in tempi diversi dai fatti sul terreno e vi si congiungono con assoluta eleganza e flessuosità di ritmi narrativi. Benché aperto e largo, lo spazio è visualmente limitato, perché, alle apparenze, dominabile e comprensibile.

Ma il miracolo delle riprese è stato quello di avere concentrato psicologicamente e emotivamente le tensioni negli spazi chiusi: il conflitto concettual-visivo tra la rigidità di queste dimensioni, stive di navi, barche e barchette, e la cornice sconfinata, non poteva essere più azzeccata e utilizzata in maniera coinvolgente e spettacolare. Suggeriva il senso di pericolo imminente e di ineluttabilità, senza far (quasi) ricorso ai soliti effetti speciali in CGI.

Tutto è molto materico nel film: prevalgono gli Effetti Speciali su quelli Visuali. Del resto l’accurata e rigorosa precisione marinara dei navigli adottati dà ulteriormente quel senso di immediatezza storica: ma essa è soprattutto tematica, ed appartiene alla genialità del regista e al talento dei suoi collaboratori artistici.

Oltre al montaggio, è da ricordare la direzione della foto dello svizzero Hoyte Van Hoteyma, molto bravo nel creare l’atmosfera visuale unitaria con l’uso della luce sia naturale che artificiale negli spazi interni. La sua è un’atmosfera di vibrazioni luminose, che “variano” quell’apparente stabilità diurna di uno spazio senza chiarore: come di una dimensione dell’anima collettiva dei soldati.

La musica di Hans Zimmer dà un contributo di sintesi sonora di forte impressione: si rileva anche nei micro trailer utilizzati nel lancio dei film. Tra gli attori, il non militare Mark Rylance esprime con semplicità e umanità il forte coinvolgimento collettivo delle centinaia di proprietari dei natanti che salvarono i soldati inglesi e le sorti della guerra.

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