Cultura

La recensione, Free state of Jones

di FRANCESCO “CICCIO” CAPOZZI

 

La vicenda, storicamente documentata, di Newt Knight, un soldato confederato, che dal 1863 al 1876 con altri disertori e schiavi fuggiaschi, creò tra le paludi della Louisiana, nella contea di Jones, una sorta di repubblica democratica, egualitaria e indipendente.

Il cinema USA non smette di stupirci. Quando riteniamo di averlo incasellato tutto per bene, secondo mode, trend produttivi, generi e sottogeneri, ecc., ecco che spunta un prodotto “anomalo” come questo, che spariglia ogni analisi e mette in evidenza la vitalità culturale e produttiva del cinema di quel grande paese.

Free state of Jones un film (USA, ‘16) che sotto le spoglie spettacolari di un western storico sviluppa una riflessione tematica sulla storia degli Stati Uniti d’America, che dalla fondazione, passando per la sanguinosissima Guerra di Secessione (1861-1865), trascinano, senza averla mai risolta del tutto, la questione razziale.

La battuta-chiave la dà lo stesso protagonista: «Ognuno è il Nero di qualcun altro», volendo mettere in evidenza che lo sfruttamento e l’uso della persona umana per sfruttamento non dipendeva dal colore della pelle, ma dalle condizioni sociali.

Inoltre i soldati Confederati, in grandissima parte, combattevano, e morivano, per schiavi che non possedevano: anzi, il colmo era il fatto che i possessori di almeno venti schiavi erano addirittura esentati dalla leva obbligatoria … Da questa bruciante diseguaglianza e di fronte all’insensata carneficina senza fine della guerra, scaturisce la rivolta, prima morale, poi personale, infine sociale e organizzata di Newt.

locandina

Il film è molto concentrato sul personaggio principale: che è reso da Matthew McConaughey, Oscar 2014 come Miglior Attore protagonista, con un carisma e una presenza scenica di grande efficacia. E il suo personaggio ha grande spessore, non solo umano e personale, ma politico. La sua è un’evoluzione che tiene conto della realtà dei fatti: in particolare nella consapevolezza che il razzismo diventa un’ideologia che mette proprio i bianchi poveri contro i neri. Che trova nella prassi militare, segreta per modo di dire, e tollerata del Ku Klux Klan la sua odiosa configurazione di strumento di oppressione violenta e segregazione.

Il film segue e documenta con inappuntabile fedeltà storica l’evoluzione dei rapporti sociali all’interno degli stati del Sud, servendosi anche dell’uso di foto d’epoca a grande schermo, che sono di intermezzo documentario alla narrazione vera e propria nel sottolineare alcuni passaggi cruciali, e di come gli ex Confederati avessero tentato di rimettere in piedi, in forme giuridicamente appena mascherate, la schiavitù abrogata da Lincoln.

Come anche alcune arcaiche forme di segregazione razziale, tipo il divieto di matrimonio interrazziale, perdurassero nelle legislazioni statali del Sud anche negli anni ‘50 del secolo scorso. Anzi, il film in flashforward – il contrario del flashback – mette in parallelo il processo penale di un bisnipote di Newt, proveniente dall’unione di questi con la schiava liberata Rachel, che “nero per un ottavo” (sic!) non poteva, in quegli anni, contrarre matrimonio con una bianca.

Come avrebbe fatto il suo avo, il giovane non accetta compromessi nel difendere la sua dignità e la memoria postuma, che evidentemente incuteva ancora paura tra i razzisti del Sud, di questo eroe civile.

Il film restituisce in forma di appassionante narrazione, di grande impatto spettacolare in taluni momenti, ma in generale anche di partecipazione emotiva e drammatica, la complessità dei passaggi storici. Che, caso raro nelle similari narrazioni hollywoodiane, non vengono schematizzati o impoveriti, ma vengono resi in una veduta d’insieme articolata e complessa: e di cui non perdiamo mai il filo unitario.

E questo miracolo avviene grazie alla bellissima sceneggiatura, dello stesso regista Gary Ross – che del resto nasce come sceneggiatore – e cui si deve, come regista, il primo Hunger Games. Ross è uno che manovra spettacolo e grandi masse, ma è attento a ragioni più sottili e intellettuali. Si presenta con un suo stile sia narrativo che espressivo: la ricostruzione che fa dell’800 non solo ha il sapore dell’”esattezza”, ma anche della “molteplicità” calviniane. E’ una povertà, nel senso di essenzialità figurativa, che rimanda direttamente alle dialettiche umane che vi si agitano, con forza e passione.

Il contributo dato dal Direttore della foto, il francese ma da tempo operante in USA Benoit Delhomme, è fondamentale. I suoi cromatismi, sono intrisi di opaco e di bruttura, pur essendo stilisticamente chiarissimi, perché rimandano a situazioni estreme, cui si reagisce con vigore e furore. Inoltre è riuscito a ricostruire il senso della luce di un’epoca che fosse la continuazione di quei dagherrotipi così importanti nella documentazione.

Le due montatrici, Juliette Welfling e Pamela Martin, hanno saputo connettere il senso di una narrazione storica che si sviluppa lungo un arco piuttosto lungo di tempo in una fluidità felice e chiara. Qualche critico ha parlato di narrazione brechtiana: tale da suggerire una riflessione politica priva di ogni moralismo politically correct, ma che dà un giudizio critico sull’evoluzione sociale, attenta anche alle ragioni dell’economia e della politica, con attestata ed encomiabile profondità.

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