Cultura

La recensione, Miss Peregrine – La casa dei bambini speciali

di FRANCESCO “CICCIO” CAPOZZI

 

Jake, un adolescente un po’ timidone, è frastornato per la morte del caro nonno. In cerca di indizi che potrebbero aiutarlo a sciogliere dubbi e nevrosi circa la sua stessa natura. Il padre lo accompagna in Inghilterra: qui conosce Miss Peregrine e la strana accolita di bambini da lei protetti, ma anche misteriose, orrende minacce.

Inutile dire che quando c’è Tim Burton alla regia, ci si aspetta sempre il miracolo: qualcosa di bello a vedersi, pieno di personalità e di poesia. Pur non avendo convinto del tutto i critici, a mio avviso, siamo di fronte, forse non ad un capolavoro, ma ad un degno film (UK-USA, ‘16) autorale, ricco di fantasia. Tratto da un romanzo di Ramson Riggs, edito in Italia da Rizzoli, esprime, per lo meno all’apparenza iniziale, la solita dialettica tra i “diversi” e i cosiddetti normali.

Però il fatto che accomuna i bambini e le loro protettrici, le Ymbryne, è che i loro nemici giurati, non sono i normali mortali, ma altri speciali, chiamati i Vacui,che hanno giurato di “mangiare gli occhi” e di nutrirsi di questi ragazzi, perché vogliono assumere dei poteri particolari e l’immortalità.

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Ma qual è la sua freschezza? È che tutto l’assetto resta perfettamente in equilibrio con la sua coerenza narrativa e di sviluppo di situazioni e personaggi, in bilico tra l’opera dark, il grottesco e il film di malinconia e di sentimenti: una miscela burtoniana al 100%.

A partire dal personaggio di Jake, che ha un rapporto col nonno splendido e profondamente amorevole, ben più di quello col padre e con la madre, troppo indaffarati nel loro mediocre tran tran, a loro volta e invece, privi dell’affetto del loro genitore: ma questo è uno schema narrativo ricorrente in Burton.

Il nonno educa Jake, lo fa crescere e lo protegge nella sua particolarità. Le pagine iniziali del film sono di una delicatezza e di una struggenza notevole, tutta concentrata sulla poeticità del rapporto e l’attenzione al mondo infantile, e le cui tonalità scenografico-cromatiche, tutte virate sul chiaro e luminoso,divergeranno notevolmente da quelle successive.

L’incontro con Miss Peregrine e la banda dei ragazzi è realizzato con una semplicità e una sicurezza narrativa esemplari. L’ambientazione della casa e la diversificazione delle particolarità dei singoli bambini è simpatica, svelta e ben tratteggiata. Ma è tutto l’insieme che funziona e incuriosisce, anche perché c’è una scelta dimensionale adottata molto particolare, che è quella di vivere, al fine di sfuggire alla diuturna caccia dei Vacui, tutti insieme in un unico anello temporale di 24 ore, dopo di che tutto, allo stesso identico modo del giorno trascorso, “ricomincia da capo”. Il che è quasi il titolo del divertente e geniale film del ‘93 di Harold Ramis con Bill Murray cui è ispirata questa idea.

La casa sembra la solita casa gotica dei film Hammer: ma in realtà è accogliente, ricca di calore umano e ben organizzata, cui i bambini danno un tocco di disarmante e ingenua particolarità, che ognuno vive a suo modo, in una visione che diventa perfino umoristica, perché affettuosamente grottesca. E, anche se può sembrare un ossimoro – anzi, proprio per questo – rientra anch’esso nel complessivo Burton touch.

Poi c’è la vestale guerriera, interpretata con assoluta sicurezza dalla magnetica Eva Green: fasciata in vestiti di grande eleganza, che indossa con sicuro e noncurante charme, firmati per lei (come per tutti) dalla tre-volte-Oscar Colleen Atwood, si aggira con femminilità, affettuosa e materna forza, e piglio deciso, pronta a prendere a frecciate i Vacui. E il suo fumare la pipa, le dà un tocco di geniale stravaganza: è un personaggio e una presenza di grande effetto.

Simmetrico e speculare a lei, c’è il cattivo Barron: uno straripante Samuel L. Jackson, perfido, strafottente ed esagerato. Crudele benché curato e azzimato come un dandy ma non privo di pieghe comiche.

Interessanti, e molto raffinate e particolari le citazioni del film: la prima è quella da Ray Harryhausen – l’ha notato Valerio Caprara – il fantasioso “effettista” che creò mostri chimerici di grande vitalità realistica, nel combattimento di quei due giocattoli nella casa di Miss Peregrine.

Poi c’è la “resurrezione” degli scheletri, anch’essa da Harryhausen, nella battaglia contro i Vacui. Ma qui c’è l’omaggio al regista  Sam Raimi che ha avuto un’idea analoga in L’Armata delle tenebre (‘92), il III film della serie La Casa.

Il citazionismo di Burton però non è mai compiaciuto, ma ha caratteristiche di malinconico omaggio alla ricchezza fantastica della visualità del passato: il regista ama incondizionatamente la lettura critica del cinema storico. E, volendo, possiamo leggere in questa chiave metaforica l’oltraggio cannibalesco dei Vacui: l’estirpazione degli occhi, implica il furto del vedere. Ovvero la trasformazione di coloro che hanno fantasia e sono portatori di diversità in morti viventi senza “visione”, senza capacità di leggere, capire e interpretare per noi, quindi arricchendoci, le immagini che ci circondano.

Il film si libra attraverso diverse e numerose ambientazioni sempre realistiche, coordinate dall’art director Gavin Bocquete dalla Set Decorator Elli Griff, quantunque in una ricostruzione fantasmagorica, su cui possono credibilmente agire e scontrarsi umani speciali e vacui, come in quella stupenda del parco giochi.

Pur ribadendo che mi è molto piaciuto, forse al film ha nociuto il fatto di aver disperso il protagonismo, dopo l’incontro con i due iniziali ben delineati (il carismatico nonno Terence Stamp e Jake, Asa Butterfield), su diversi personaggi, ai quali non siamo riusciti ad appassionarci in egual misura: ma ciò implica una riuscita coralità drammaturgica che non è un demerito, anzi.

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