Cultura

La stampa napoletana dopo l’unità d’Italia

di Michele Di Iorio

Gli albori dello Stato italiano furono un disastro per Napoli e la libertà di stampa. Infatti all’indomani dell’unità il ministro dell’Interno Raffaele Conforti insediatosi a Napoli durante la dittatura di Garibaldi, soppresse ufficialmente i giornali napoletani La torre di Babele e I tuoni che avevano criticato il sistema di governo garibaldino e il plebiscito forzato dalla paura delle ritorsioni dei virgolatori camorristi.

Nonostante la censura il 18 giugno 1861 uscì il primo numero del giornale La tragicommedia, diretto dallo scrittore Giacinto de Sivo: poche pagine, ma avverso all’unità e al governo italiano. La Guardia nazionale di Napoli sequestrò il quarto numero ancora in stampa, e i virgolatori della camorra filosabauda distrusserro la tipografia. Il direttore de Sivo venne arrestato ed espulso dalla città.

il 2 agosto 1861 duecento giovani liberali scortati da camorristi armati e dalla Guardia nazionali e da carabinieri assaltarono distruggendo le sedi dei giornali filoborbonici.

I giornali Il Corriere del Mezzodì, L’Araldo, Flavio Gioia, La Settimana cattolica, L’Unità cattolica e L’Italia reale, considerati reazionari, vennero sequestrati. Rimasero in stampa altri 24 giornali, come Il Popolo d’Italia, repubblicano.

Non si poteva mettere però il bavaglio ai giornalisti napoletani: ancora l’1 dicembre 1862 il direttore Domenico Ventimiglia insieme con i redattori Stanislao Falcone, Giacomo Savarese, Costantino Crisci, il principe Caracciolo di Torella e il marchese Santangelo, fondò Il Napoli con tipografia a via Nilo. Già dai primi numeri il giornale attaccò senza mezzi termini il governo italiano, raccontando gli abusi e le atrocità commessi sulle popolazioni del Sud. Difese il brigantaggio e riportò la notizia della dimostrazione filoborbonica dei popolani di Santa Lucia al grido di Viva re Francesco II, cui risposero i giornali L’indipendente di Dumas e Il Roma.

Naturalmente, su ordine del questore Nicola Amore Il Napoli venne chiuso, il direttore Ventimiglia arrestato, la tipografia distrutta e sequestrate le copie.

Ma intellighèntsia e popolo napoletani non si arresero: nacquero altri giornali Il borsa, clandestino, e Il Nuovo Guelfo, diretto da Luigi Erasmo Gaeta, un militare veterano dell’esercito borbonico, con tipografia in largo della Carità. Gaeta venne arrestato e il giornale soppresso.

Il borsa coraggiosamente continuò le pubblicazioni alla meno peggio: riportò la notizia della rivolta degli operai ferroviari di Pietrarsa a Portici del 7 agosto 1863 e il 14 agosto fece distribuire migliaia di manifestini contro i piemontesi disseminandone la zona di Portacapuana. Il 19 settembre riuscirono ad intercettarlo e venne chiuso.

La tenace stampa napoletana, così come i cosiddetti briganti, rifiutava però di arrendersi: usci un nuovo foglio clandestino Il pensiero, subito sequestrato dalla polizia. Vennero soppressi altri giornali di Napoli, La campana del popolo e l’umoristico L’arca di Noè, e perfino il repubblicano – e quindi non borbonico – Il popolo d’Italia.

Ancora l’8 settembre del 1863 nacque il filoborbonico Il conciliatore, con sede in via Egiziaca a Pizzofalcone, direttore l’avvocato Salvatore Cognetti.

Tempi difficili per l’ordine pubblico: i fedeli sudditi borbonici facevano scoppiare ovunque bombe carta. Il tristemente famoso questore di Napoli Nicola Amore puntò la sua attenzione su Il conciliatore, Il 14 maggio del 1864 venne denunziato il Cognetti con l’accusa di agitatore attraverso la carta stampata e ispiratore delle diserzioni dal real esercito italiano. Il 31 luglio dello stesso anno fu rilasciato ma non potè riaprire il giornale.

Intanto il 23 maggio del 1864 era stato soppresso per sospetto borbonismo La campana di san Martino.

Nel 1872, dopo 6 anni di silenzio, nacque il giornale La discussione con sede legale in in vico terzo della Corsea, diretto da Salvatore Cognetti e da Michele Torrenteros.

Su questo nuovissimo quotidiano borbonico nel 1875 venne pubblicato a puntate il libro Un viaggio da Boccadifalco a Gaeta di Giuseppe Butta, ex cappellano militare borbonico, che narra dal punto di vista borbonico la spedizione dei mille.

Questa la panoramica della tartassatissima stampa napoletana tra il 1861 e il 1872 che traccia appieno la situazione più che difficile di Napoli che si perpetrò fino ai giorni nostri.

Morto in esilio ad Arco di Trento re Francesco II il 27 dicembre 1984, ne venne data notizia da Il mattino, con una dettagliatissima prima pagina sulle esequie a firma di Matilde Serao. La stessa Serao si recò in seguito a Monaco di Baviera per intervistare l’ultima regina di Napoli, la vedova Maria Sofia, di cui era grande ammiratrice.

Erano anni in cui l’aggettivo borbonico era diventato sinonimo di reazionario, retrogrado. Anche Matilde Serao, Eduardo Scarfoglio e il grande poeta Ferdinando Russo ebbero problemi in tal senso. Man mano diventò una vergogna essere filoborbonici.

Bisognerà aspettare quasi un secolo e l’impegno di intrepidi intellettuali come Angelo Manna e Riccardo Pazzaglia perché i napoletani e il Sud attraverso la revisione dei fatti che avvennero dopo il 1860 si avviassero verso il recupero della memoria di ciò che erano stati e il conseguente risveglio identitario.

Ma questa è un’altra storia …

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