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il Racconto, Colonnello Fiore

di Lucio Sandon

Sembra proprio che il nostro amico fosse un tipo abbastanza coraggioso da salire almeno tre volte sulla montagna ardente verso la fine di marzo del milleottocentosettantasette, incantato dal fiume di lava ardente che scendeva verso il mare.

Certo, dalle sue parole si intuisce che non era solo quello, ciò che lo ammaliava:

Dopo che i nostri sguardi si furono beati dell’affascinante paesaggio e che un sorso di vino ebbe soddisfatto il nostro stomaco e il nostro palato, ci aggirammo sulla montagna per scorgere altre caratteristiche di questa cima infernale che torreggia in mezzo al paradiso. Mi godetti sinceramente il ritorno, che fu rallegrato dal più meraviglioso tramonto e da una serata sublime. Nel frattempo fui in grado di constatare quanto un portentoso contrasto possa sconvolgere e smarrire i sensi. Il passaggio dal mostruoso al bello e viceversa annulla il significato dell’uno e dell’altro e conduce all’indifferenza. Se non si sentisse stretto fra Dio e Satana, sicuramente il napoletano sarebbe del tutto diverso.

Il buon Johann Wolfgang von Goethe era di certo un estimatore della montagna magica. Anche un’altra persona a quei tempi amava molto le pendici vesuviane, tanto da farne la sua residenza durante l’esilio al quale fu condannato dal suo popolo per avere sperperate tutte le risorse economiche della nazione.

Ismail Pascià, vicerè d’Egitto, venne cacciato dalle rive del Nilo per bancarotta, solo giusto per evitare di impiccarlo al ramo più vicino. Era stato lui personalmente a commissionare  la composizione dell’Aida al maestro Giuseppe Verdi, per celebrare l’inaugurazione del canale di Suez e del teatro dell’Opera del Cairo: tutta roba esageratamente costosa, ma pagata, senza far storie e in contanti, con le tasse degli egiziani. Ismail Pascià fu per diversi anni ospite dello stato italiano il quale gli aveva messo a disposizione una dignitosa dimora sulla riva del mare, nei pressi del molo borbonico di Ercolano, Villa La Favorita.

Fu la regina Maria Carolina di Borbone a definirla così in ricordo dell’amata residenza di Schönbrun. Una casetta modesta insomma. Basti pensare che il pavimento del salone centrale era stato recuperato dalla villa di Nerone a Capri.

L’enorme palazzo poi aveva ospitato l’accademia degli ufficiali di marina del regno borbonico, e nei suoi giardini i cadetti organizzavano ogni anno a novembre delle memorabili battute di caccia. Proprio a ridosso dell’imponente costruzione ne sorgeva una molto più modesta ma non meno affascinante.

Il dottor Gardenia di tutto questo era inconsapevole, e si gustava beatamente la sua meritata pennichella pomeridiana.

Drinnn…

«Dòttore!»

Filofteia, la domestica rumena che vegliava sul buon andamento della casa, si affacciò alla porta di ingresso, e urlò di nuovo verso l’interno:

«Dòttore, c’è il postino!»

Dall’uscio si udì una voce ferma e stentorea.

«Sono vecchio ma ci sento ancora bene! Non sono il postino, sono il colonnello pilota Angelo Fiore!»

«Scusa Conello, a quest’ora viene sempre il postino.»

Il dottor Gardenia ormai si era svegliato, tanto valeva rispondere.

«Operbacco  Filofteia, la tua logica non fa una piega. Fai entrare il colonnello, chissà cosa può volere da me un colonnello a quest’ora.»

Il colonnello era una uomo di oltre novant’anni, senza un capello ma con bel paio di baffi bianchi a manubrio, alto e dritto come un fuso. Era vestito elegantemente in completo blu, con all’occhiello della giacca lo stemma in oro della Ferrari, cravatta regimental, e un bastone d’avorio massiccio che valeva probabilmente una fortuna, ma certo meno delle sue scarpe inglesi.

Il dottor Gardenia invece, esibiva il suo solito look, definito anni prima da una sua collega come casual, e dalla sua propria madre addirittura da venditore di cocomeri. Maglietta strappata dalla consunzione, pantaloncini corti, e ciabatte sformate. In cotal guisa andò a stringere la mano al vegliardo che lo guardava di sottecchi.

«Molto piacere colonnello, posso chiedere a cosa devo l’onore?»

«Mi scusi l’intrusione, ma vede, torno adesso dal circolo ufficiali di Piazza Plebiscito dove ho pranzato, e alcuni colleghi mi hanno indicato il suo nome quale valente ufficiale e veterinario. Veda, mi hanno regalato un cucciolo e vorrei farlo controllare.»

In effetti il disordinato professionista era stato congedato anni prima dall’esercito con il grado di capitano e frequentava a volte il circolo cittadino.

«Ma si immagini signor colonnello, nondimeno mi risulta oscuro…»

«Non se ne abbia a male dottore, capisco cosa vuol dirmi: per chiedere una visita ad un animale bastava fare una telefonata, ma vede io sono un po’ contrario a queste diavolerie moderne e poi sono in pensione. Ho tanto tempo a disposizione!»

«Abbia pazienza colonnello, stavo riposando: se attende due minuti mi vesto e andiamo senz’altro a vedere il cagnolino. Se intanto gradisce un caffè, Filofteia può senz’altro provvedere. Però se ci tiene alla sua salute, le consiglio di rifiutare!»

Si ritrovarono così a viaggiare verso villa La Favorita, che l’anziano ufficiale aveva indicato come destinazione. Ma il dottor Gardenia aveva un dubbio.

«Mi scusi colonnello, avrei una curiosità: come mai porta all’occhiello il simbolo di una casa automobilistica? Lei è forse appassionato di formula uno?»

L’ottuagenario non nascose la sua perplessità.

«Si riferisce al cavallino, dottor Gardenia? Questo non è il simbolo di una macchina, ma quello della mia squadriglia di aerei da caccia. Vede caro capitano, nel 1916, dopo l’entrata in guerra dell’Italia, fu chiesto ad alcuni giovani ufficiali dell’esercito e di marina, di offrirsi volontari per la costituzione di una nuova arma che non esisteva ancora. L’aeronautica militare era ai suoi albori, ma per entrare a farvi parte bisognava essere più che coraggiosi, dei temerari. Il novanta per cento degli aerei che si alzavano in volo non tornavano alla base, pur senza effettuare dei combattimenti. Io ero un tenente del Genio militare e sognavo di essere più in gamba di Icaro, così mi presentai al campo di addestramento in Belgio e lì trovai un bravissimo comandante. Si chiamava Francesco Baracca, e con lui iniziammo a volare contro gli aerei prussiani. Tra l’altro, nei momenti liberi trovai anche moglie. Eccola, la mia Helga. Non le sembra bellissima dottore? È una ragazza fiamminga, bottino di guerra!

La ragazza una ex rossa, non superava gli ottantacinque anni, e aveva ancora degli splendidi occhi verdi che sorridevano al suo eroe. Lui aveva combattuto contro il Barone Rosso ed era ancora vivo a raccontarlo. Helga teneva stretto in braccio un cucciolo di pastore del Caucaso di nome Red Baron, portato in dono da un amico commerciante di coralli che lo aveva contrabbandato dall’Azerbaijan attraverso tre frontiere e un lungo viaggio in nave. Un batuffolo di pelo grigio tigrato di tre mesi, con le orecchie mozzate asimmetricamente in modo probabilmente brutale, operazione che probabilmente aveva contribuito a rendere più aggressivo e sospettoso il suo carattere, e renderlo simile a quello della sua padrona, così ridacchiava l’anziano ufficiale.

Da quel giorno in poi, per curare la bestiola, ogniqualvolta ne avessero bisogno, i due sposini scrivevano una lettera al loro veterinario, in bella calligrafia e con carta intestata, regolarmente impostata alla buca più vicina.

«Caro dottore, avremmo il piacere di ricevere una sua visita, per quanto possibile urgente presso la nostra abitazione di Vicolo della Favorita numero…”»

Le visite si succedettero spesso in quella villetta sul mare, sommersa dalla vegetazione rigogliosa che debordava dal parco della Favorita, ed era bello per il dottor Gardenia sedersi sotto una pianta di limoni a godere della veduta del mare, della collina di Posillipo, Ischia e Capo Miseno, e conversare con il colonnello. Lui raccontava amabilmente aneddoti che affascinavano il giovane dottore, il quale ascoltando quelle parole volava con la fantasia nei cieli delle Fiandre insieme al Barone Rosso.

Nel frattempo il cucciolo era cresciuto oltremodo, diventando un gigante feroce che aveva sommamente in odio il suo medico,  probabilmente in ricordo di tutte le volte che era stato sottoposto ad iniezioni ed altre pratiche non meno fastidiose da parte di quello strano individuo che poi andava per giunta ad occupare il suo posto preferito sotto l’albero di limoni, a godere dell’estratto alcolico di quegli stessi frutti dorati, in compagnia dei suoi padroni.

Tra una chiacchiera e l’altra, passò l’estate ed anche le altre stagioni, e venne il momento per il cortese molosso di essere sottoposto alla vaccinazione antirabbica.

Era la fine di maggio, e proprio in quei giorni, ogni anno nella settimana successiva alla ricorrenza del Corpus Domini, a Torre del Greco, ridente cittadina che si distingue da Ercolano unicamente per una targa blu posta di traverso su un marciapiede, si celebra gioiosa la ricorrenza della fine del giogo baronale. La festa che dura diversi giorni, comportava tra l’altro l’impazzimento totale del traffico veicolare, già di norma vicino al collasso. La Festa dei Quattro Altari è una tradizionale festa religiosa di devozione per l’Eucarestia, abbinata nel tempo al ricordo di una fase fulgente della storia del popolo torrese, cioè la liberazione dallo Jus primae Noctis e per questo chiamata generosamente nelle cittadine vicine, la festa dei cornuti.

Il veterinario che viene chiamato in quei giorni per una visita a domicilio, si arma di adatto ciclomotore oltre che di pazienza sovrumana, però non immagina che la sua nemesi lo attenda nel cortile di una casa sul mare.

La lettera diceva: «Caro dottore, Red Baron ha bisogno di fare la sua iniezione antirabbica». (al dottor Gardenia era già salita la febbre nel leggere quelle poche righe vergate con calligrafia ormai incerta). C’era però una postilla interessante: «Venga con un mezzo di trasporto adatto al carico, io ed Helga abbiamo deciso di regalarle la stufa di ghisa che lei ammira sempre a casa nostra, noi non abbiamo più la forza di caricare la legna ed abbiamo comprato una stufa a gas moderna».

La stufa era una scultura in stile liberty di produzione belga, con tanto di finestrelle in cristallo di mica per ammirare il fuoco, così pesante che vennero arruolati due robusti operai cooptati sia per caricarla in un furgone e trasportarla a casa del dottor Gardenia, sia per tenere ferma la bestiola e permettergli di eseguire la pericolosa attività inoculativa.

Lui si era presentato accompagnato come sempre dalla sua fedele assistente Alessandra, utile ad ammansire la belva in quanto dotata di un particolare feeling con gli animali aggressivi,  essendo lei stessa per carattere e movenze paragonabile ad una giovane tigre.

Red Baron già ringhiava e strattonava una robusta catena assicurata a un altrettanto robusto anello cementato nel muro della villetta: il colonnello dirigeva le operazioni: «Helga, metti la museruola e accertati che sia ben stretta! Tonino e Pasqualino (nonostante i vezzeggiativi i due erano dei bruti da novanta chili), voi tenete ben fermo il cane (il quale non si ribellava affatto al tocco delicato dei due garzoni, anzi scodinzolava e tentava di leccar loro le mani), bella signorina, lei si allontani che questo è un lavoro da uomini, va bene non si arrabbi, dottore è pronta l’iniezione? Ma insomma, volete bloccare quella bestia, non mollate, dottore attento che Red Baron ha spezzato la catena!»

Lui, il dottore, era già a dieci metri di distanza, e stava cercando di guadagnare l’uscita, ma Red Baron gli fu addosso in due balzi e lo gettò a terra tentando di azzannarlo alla gola e lasciandogli profondi graffi sulle braccia e sulla schiena con la potenza delle sue zampe.

Il miracolo fu compiuto dalla robusta borsa di cuoio, regalo di laurea dello zio professore di Agraria: le potenti zanne di Red Baron si piantarono profondamente nella bisaccia piena di strumenti. Solo per pochi centimetri non si chiusero sul collo del malcapitato ma solamente, si fa per dire, sul pollice della mano che teneva la borsa sollevata all’altezza della gola, quasi strappandolo, anche se per il terrore e lo shock, il dottor Gardenia non sentì quasi il dolore.

Indicibile fu il sollievo e la gratitudine del veterinario quando i cinque incolpevoli spettatori del dramma riuscirono a recuperare il pezzo di catena strattonando il ringhiante molosso e a portarlo poi all’interno del suo box. Il dottor Gardenia intanto, miscredente fin dai tempi dell’asilo, aveva per incanto ricordato il testo della preghiera all’angelo custode, e la recitò a voce alta per filo e per segno prima di svenire lungo disteso sull’acciottolato del cortile.

Quando si svegliò, credette.

Doveva per forza essere in paradiso. Profondi cieli  azzurri lo sovrastavano, era disteso su di una nuvola, e i riccioli biondi e profumati dell’arcangelo Gabriele gli accarezzavano il viso e le spalle, mentre uno stuolo di voci celestiali cantavano le lodi del signore.

«Fermo che ho quasi finito.»

Alessandra, con rapidità e perizia aveva provveduto a ricucire la mano sbranata del suo principale, approfittando dei pochi attimi in cui lui era sembrato consentire all’operazione. Era stato impossibile trasportarlo al locale nosocomio per via della processione che transitava proprio in quel momento lungo la strada, con fanfara, canti, tamburelli e gonfaloni, rendendo così impensabile il trasporto del ferito con qualunque mezzo. A completare la sua vergogna, la bella assistente, che aveva provveduto senza problemi alla vaccinazione del mostro, procedette anche al trasferimento dell’infortunato presso il bagno del colonnello dove aiutò il politraumatizzato a ricomporsi e ripulirsi, anche se per i vestiti non c’era nulla da fare, così come per l’amata borsa da lavoro.

Si era intanto ormai fatta l’ora di pranzo e dietro insistenza di Frau Helga, si accomodarono sotto la pianta di limoni per gustare un leggero rinfresco. Essendo ormai da oltre sessant’anni cittadina italiana, Helga aveva fatto sue le tradizioni locali: nei giorni festivi in quelle zone il piatto tipico è la lasagna, al singolare, fatta con pasta di grano duro, polpettine fritte e poi ammorbidite nel sugo del ragù a sua volta preparato con un solo pezzo di carne. Poi mozzarella, ricotta uova sode, e salsiccia. E poi la Parmigiana di melanzane, che a Parma non hanno mai sentito nominare, il tutto annaffiato con un vinello di Gragnano che consolò il povero veterinario dai suoi dolori fisici e morali, anche per l’amorevole aiuto da parte della bionda collega che l’imboccava pur non avendone lui completa necessità.

«Caro dottore, attendo con impazienza l’invio del suo conto, che comprenderà senz’altro anche i suoi vestiti e la borsa rovinati, l’intervento della valente collega, e il danno fisico e morale provocato dall’orribile orco… La stufa è già a casa sua.»

Firmato

Colonnello Fiore. 

Lo scrittore di adozione porticese Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprenso poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è La Macchina Anatomica, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo Il Trentottesimo Elefante; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: Animal Garden e Vesuvio Felix, e una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario.

 

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